19 Gennaio 2024

Fargo 5 finale di stagione – Quanta soddisfazione di Diego Castelli

Quando pensavamo che Fargo non potesse più superarsi, ecco una quinta stagione che probabilmente è la migliore di sempre dopo la prima

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ATTENZIONE! SPOILER SU TUTTA LA QUINTA STAGIONE

Fargo è uno strano oggetto seriale. Non solo perché è la versione a episodi di un film diretto da due autori dallo stile molto personale, che in tv vengono amorevolmente plagiati da un altro autore che è prima di tutto un loro fan. Ma anche perché Fargo arriva quando diavolo le pare: prima due stagioni a distanza di un anno, poi un salto di due anni, poi tre, e infine altri tre per arrivare alla quinta e per ora ultima stagione (e per fortuna che almeno arriva in contemporanea su Sky e NOW).

Ovvio, la natura completamente antologica della serie, che ripropone sempre la stessa atmosfera ma mai la stessa storia o gli stessi personaggi, rende più diregibile questa scansione ballerina e trasforma Fargo in un regalo che Noah Hawley ogni tanto piazza sui nostri schermi, incartato e infiocchettato.
Ma non solo: la possibilità di fare tabula rasa ogni volta, fa sì che eventuali errori o fatiche non debbano venire per forza assorbiti e rimescolati, permettendo di ripartire da zero.

E se al buon Noah gira bene, ecco che è possibile avere una quinta stagione che, forse anche perché la serie ci mancava da tanto, ci è sembrata davvero valida, forse la migliore dopo la prima, che rimane là in alto perché, beh, era la prima.

Non stiamo a reintrodurre i personaggi e i temi della stagione, perché l’avevamo già fatto qualche settimana fa, e perché il finale merita attenzione di suo.
Vale giusto la pena ricordare che, fin dall’inizio, questo ciclo di episodi si fondava sulla lotta fra Roy, sceriffo patriarcale, abusatore e integralista religioso interpretato da Jon Hamm, e la sua ex moglie Nadine (Juno Temple), nel frattempo diventata Dorothy, che era riuscita a sfuggirgli per un decennio, salvo poi essere ritrovata e ribraccata.

Nel corso della stagione, questa sorta di gioco del gatto col topo ha portato a continui allontanamenti e avvicinamenti, ha modificato l’inquadramento di alcuni personaggi importanti (su tutti Lorraine, la suocera di Dot, che per un po’ è sembrata una specie di secondo cattivo, salvo poi tornare fra i buoni al momento di vedere con i suoi stessi occhi le dolorose lesioni subite da Dot per mano di Roy), ha dato vita a singole scene memorabili o dichiaratamente sperimentali, come nell’episodio in cui Dot fa visita alla prima moglie di Roy raccontando la sua storia in forma di marionette, o come il dibattito fra candidati a sceriffo in cui Roy si trova affiancato da “cloni” ingaggiati dall’avvocato di Lorraine.

Se nei primi due episodi avevamo sottolineato la consueta anima grottesca di Fargo, sempre capace di associare i suoi drammi a una robusta componente di commedia, bisogna dire che verso il finale, e proprio con l’ultimo episodio, il drama prende leggermente il sopravvento, forse perché i personaggi ci sono diventati così familiari, e così tanto ci importa del loro destino, che ora sarebbe ingeneroso scherzarci troppo su.

Forse è anche il tema: con questa stagione più che con le altre, Fargo affronta un argomento, quello della violenza sulle donne e più in generale del machismo che caratterizza tanta parte della società americana provinciale, su cui si può scherzare fino a un certo punto.
Lo fa costruendo un personaggio femminile di grande scaltrezza e resilienza, un’eroina dalle mille risorse, una “tigre”, come spesso definita dal misterioso sicario Ole Munch, in cui però non si rinuncia del tutto al realismo di una donna che, semplicemente, non può avere la forza fisica per resistere alle angherie di un uomo grosso il doppio, per di più attorniato da un mezzo esercito al suo servizio.

Dopo la cattura, l’imprigionamento, e infine la fuga di Dot, si arriva così a un ultimo episodio in cui Noah Hawley era chiamato a fare una scelta importante.
Sapevamo, senza grandi dubbi, che Dot avrebbe portato a casa la pelle, e che Roy l’avrebbe pagata. Non sapevamo però come, e Hawley poteva decidere di imbastire un ultimo episodio pieno di suspense, che confinasse la risoluzione della vicenda in un’ultima scena tutta azione e violenza, oppure di chiudere la vicenda principale già nelle prime battute, lasciando alla storia il tempo di respirare negli ultimi minuti, raccontando con più agio la fine delle parabole dei vari personaggi.

Alla fine l’autore ha scelto la seconda via, chiudendo la faida Roy-Dot già nelle prime scene (con la donna che spara all’ex marito, lui che fugge e uccide il pover Witt, salvo poi essere catturato), e allungando la vicenda dello sceriffo fino a metà episodio, quando Lorraine va a fargli visita in carcere per annunciargli che grazie al suo potere economico farà in modo che la vita di Roy in galera sia un vero e proprio inferno.

Questo è un momento deliziosamente bastardo: Dorothy, che è un personaggio profondamente buono, aveva narrativamente diritto a difendersi e a colpire duro, ma non a mostrare una faccia troppo crudele di sé. Solo che noi spettatori siamo più malevoli, e volevamo vedere qualche sofferenza in più da parte di Roy: non ci bastava saperlo al calduccio in carcere. Ecco allora che entra in gioco Lorraine, passata da poco dalla parte dei buoni ma certamente capace di qualche succosa malignità: il suo accanimento su Roy, di cui finalmente vediamo la faccia spaventata, lascia noi con la soddisfazione di vederlo soffrire, senza per questo rovinare la reputazione dei personaggi più candidi della stagione (oltre a Dot c’è anche Indira, che infatti Lorraine fa uscire dalla stanza prima di calare la sua mannaia).

E poi arriviamo al vero finale, quasi metà episodio in cui Fargo, risolti i problemi più spinosi, torna alla sua vena ironica e surreale, facendo reincontrare Dot e Munch.

Il sicario, che aveva riconosciuto il valore della sua preda già nei primi due episodi e che l’aveva perfino aiutata nella sua lotta contro Roy (senza per questo diventare un vero e proprio buono, visto che le torture a Gator, figlio di Roy, ci erano parse “un po’ troppo” anche contro un personaggio viscido come quello interpretato da Joe Keery), si presenta però alla sua porta sostenendo che la sua missione non è conclusa.

In pratica, Munch spiega a Dot che sì, l’uomo che l’aveva pagato è in carcere e no, non aveva simpatia per lui, ma questo non significa che il suo debito non debba essere saldato.
È un momento decisivo, ben presto metaforico, che si riconnette con la natura misteriosa di Munch. Negli episodi precedenti, infatti, avevamo visto che in Galles, nel XVI secolo, c’era un uomo tale e quale a lui (un antenato? Lui stesso?) che nella sua comunità aveva la funzione di mangia-peccati: dietro pagamento, mangiava un pasto orrendo che rappresentava i peccati del ricco di turno, che così si vedeva cancellare le proprie colpe.
Un po’ quello che il Munch di oggi vuole fare con Dot: è stato pagato per cancellare i peccati di Roy, e si sente ancora legato a questo debito.

Ed è qui, in quest’ultima e lunghissima scena, che la quinta stagione di Fargo chiude il cerchio della sua filosofia e costruisce una sua morale abbastanza esplicita.

Invece di combattere Munch – secondo quello schema difensivo che Dot aveva già adottato con Roy, e che di fatto significa giocare alle regole degli uomini prevaricatori, opponendo alla violenza una violenza più forte – la protagonista decide che ne ha abbastanza, decide che è il momento di sparigliare le carte.
Pur in un’atmosfera di inevitabile tensione, Dorothy invita Munch alla sua tavola, lo accoglie nel tepore domestico in cui, con marito e figlia, sta cucinando la cena, preparando il chili e dei biscotti.

Munch vorrebbe solo assolvere il suo compito, ma per farlo, lui che non è viscido e malvagio come Roy, ma solo incastrato in un meccanismo da cui non riesce a uscire, ha bisogno di seguire certe regole e procedure che Dot si rifiuta di riconoscere.
Usando la bontà, la gentilezza e il cibo invece della violenza, Dot spiega a Munch che un’altra via è possibile, che l’onore, il potere, il denaro, la violenza e la sopraffazione, sono tutti elementi di una cultura patriarcale certamente antica e molto potente, ma allo stesso tempo completamente arbitraria.

Non c’è nessun reale motivo per cui Munch non possa decidere della sua vita, scegliendo di fregarsene dei presunti debiti, imboccando una via spesso nascosta ma, in effetti, perfettamente percorribile.

Allontanando Munch dal Lato Oscuro, Dorothy ottiene una vittoria totale. Prima ha combattuto a tutta forza contro il Male, quando quel Male era troppo al di là di ogni possibile redenzione (Roy non è solo un marito abusatore, è anche un servitore dello Stato che rinnega quella stessa istituzione quando non risponde ai suoi scopi, è un uomo fuori dal tempo, guidato da logiche primitive, e non è più recuperabile). Poi però ha saputo distinguere fra chi quel Male lo alimenta (il suo ex marito) e chi invece lo diffonde solo perché, a conti fatti, lo subisce ed è incapace di vedere un’altra possibilità. E qui non c’è solo Munch, ma anche Gator, che Dorothy riesce a perdonare e abbracciare.

La vita di Dorothy è dunque un invito a fare la stessa cosa: a rinnegare gli elementi più tossici e irredimibili della nostra cultura e del nostro passato (per quanto radicato e potente sia), avendo però la capacità di salvare il salvabile, avendo cura di ricordare che a un certo punto anche le battaglie più giuste sono appunto battaglie, e prima o poi vanno sostituite con qualcosa di meno violento, tipo il biscotto buonissimo in cui Munch, a fine puntata, trova una vera e propria epifania.

È stato forse il finale di stagione più “morale” di Fargo, quello che più voleva insegnarci qualcosa.
Una scelta ardita per una serie che si è sempre posizionata in un posto “altro” rispetto alle nostre beghe quotidiane, lavorando di grottesco, di ironia e di surreale, per non sporcarsi fino in fondo con il fango appassionato della nostra esistenza.

Allo stesso tempo, tutto ciò che abbiamo sempre amato in Fargo c’era anche in questa stagione, e perfino quella lezione morale è stata veicolata attraverso personaggi strambi e totali ribaltamenti di prospettiva, al termine di un percorso sempre coerente, sempre calibrato al millimetro.

Insomma, un’altra grande stagione di Fargo, una delle migliori, nonché l’inizio di una nuova attesa.
Ora Noah Hawly sarà impegnato con la serie spinoff della saga di Alien, su cui riponiamo grandi aspettative, e chissà quando avrà tempo di occuparsi di nuovo del Minnesota e del North Dakota.
Ma lui stesso ha dichiarato che Fargo gli piace troppo, e che non ha intenzione di rinunciarci.

Fai con comodo Noah, tanto noi siamo qui.

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