28 Settembre 2022

American Gigolo su Paramount+ – Il breve passo da Richard Gere a The Punisher di Diego Castelli

American Gigolo riprende il vecchio film e modifica quei due-tre dettagli per renderla una storia molto diversa

Pilot

Ogni volta che ci troviamo a recensire una serie che è il sequel / prequel / spinoff di un’altra serie, subito nella testa sorge quell’oscuro pensiero tipo “dovrei prima rivedere l’originale”, un breve lampo di follia subito soffocato da una risatina isterica al pensiero di quanta roba c’è da vedere, e figurati se riesco a fare un rewatch.
Questo però è un problema soprattutto quando alla base ci sono libri e serie tv. Se c’è un film, invece, viene più facile. Per questo mi sono riguardato Rogue One prima di buttarmi sui primi tre episodi di Andor, e allo stesso modo mi sono rivisto (dopo millenni) American Gigolo prima di guardare… American Gigolo.

L’originale è un film del 1980 di Paul Schrader, di fatto il film che lanciò Richard Gere in quanto sex symbol, mentre la serie di cui parliamo oggi è da poco partita negli Stati Uniti (su Showtime) e dal 27 settembre è disponibile su Paramount+, dove verrà distribuita al ritmo di un episodio a settimana.
Al posto di Richard Gere, in un personaggio che ha il medesimo nome e grossomodo la medesima storia, c’è Jon Bernthal, che già conosciamo bene per The Walking Dead e The Punisher, e che sicuramente non è un clone di Richard Gere, ma forse un attore che serve di più alla storia della quale è protagonista.

Se me lo concedete, l’originale è invecchiato malino.
Non è tanto una questione di trama o tematiche coinvolte: il concetto del gigolo che diventa cliente di donne altolocate ha ancora una sua originalità; la sceneggiatura, a partire proprio dai dialoghi, ha ancora una sua forza espressiva e una sua modernità; e Richard Gere trentenne è pur sempre Richard Gere trentenne.

Il problema, semmai, è strettamente cinematografico, perché in termini visivi American Gigolo appare irrimediabilmente vecchio, con l’aggravante di alcune scene che all’epoca volevano essere “proprio gagliarde” (e magari lo erano pure, questo non ve lo so confermare con precisione) e oggi suonano quasi ridicole, come certi amplessi super costruiti che di sensuale non hanno praticamente niente.

Però ehi, era uno dei primi film diretti al grande pubblico a mostrare un nudo frontale maschile, quindi diamo a Cesare quel che è di Cesare, e anche a Richard Gere.

Quello che forse si dimentica più facilmente, un po’ per le inquadrature peccaminose del protagonista e un po’ per la musica stilosa di Giorgio Moroder (unita al singolo Call Me, di Blondie, che bene o male è famoso ancora oggi), è che American Gigolo era a tutti gli effetti un noir in cui il protagonista Julian, un gigolo altrimenti dedito solo alla bella vita e a soddisfare le donne, viene accusato di omicidio e rischia il carcere a vita.

Un film di indagine, insomma, in cui la prurigine che è rimasta viva per quarant’anni voleva in realtà essere il contorno di una storia torbida che raccontava anche uno spaccato di società, quegli anni Ottanta appena iniziati, machi e brillanti, che nascondevano le loro belle oscurità.

Inutile dire che la nuova American Gigolo parte più da qui, che non dall’idea di far vedere un uomo bello e trasformarlo in star internazionale.

La storia della serie di Showtime-Paramount, creata da David Hollander, già produttore e assiduo sceneggiatore di Ray Donovan, è simile ma diversa. Julian è ancora un gigolo, è ancora innamorato di una cliente che si chiama Michelle, è ancora accusato di un omicidio che non ha commesso e per il quale è stato incastrato.

Se però nel film vedevamo Julian alle prese con l’accusa e poi con una rapida scarcerazione, nella serie si è effettivamente fatto quindici anni di carcere, e quando esce deve non solo cercare di ricostruirsi una vita, ma anche provare a capire chi l’ha incastrato e perché.

Ad “aiutarlo” è Joan (Rosie O’Donnell), la detective che l’aveva arrestato la prima volta, e che ora l’ha fatto uscire con poche scuse e una certa voglia di tampinarlo ancora per vedere se, attraverso di lui e i suoi contatti, riesce a risalire alla verità.

Quella piccola discrepanza relativa ai quindici anni di carcere fa in realtà tutta la differenza del mondo.
Questo Julian esce da tre lustri di galera immeritata, è un uomo non più al passo coi tempi, almeno in parte traumatizzato, desideroso di farsi una nuova vita ma allo stesso tempo trascinato volente o nolente verso quella vecchia, dove la sua antica mistress, ora anziana, è stata sostituita da quella che una volta era una ragazzina al suo seguito, e adesso è una spregiudicata imprenditrice del sesso a pagamento.

Michelle (Gretchen Mol), la donna che amava, è invece sposata con un uomo pericoloso che le ha rovinato la vita, e il nuovo incontro con Julian, almeno inizialmente, ha ben poco di romantico e molto di spaventato e catastrofico.

È proprio qui, in questa cornice, che l’ingaggio di Jon Bernthal acquista un senso preciso. Credo di non fare torto a nessuno se dico che, parlando per gusti della massa e stereotipi estetici, Bernthal è significativamente meno affascinante di Richard Gere. Per lo meno, è una bellezza molto diversa, molto più primitiva e muscolare.
Ma proprio quello serviva: Bernthal, abilissimo nell’interpretare uomini apparentemente forti ma sotto sotto (nemmeno troppo sotto) danneggiati e spezzati da traumi più o meno evidenti, porta dentro American Gigolo una sfumatura di “machismo in crisi” che l’originale non aveva, o aveva in termini molto più filosofici e sognanti.

Il resto lo fanno i flashback, che raccontano anche la giovinezza di Julian e la sua “vendita” a quella che poi diventerà la sua protettrice, in un racconto di povertà e degrado che nel film originale era in qualche modo suggerito, ma ben poco indagato da un film che non ne aveva il tempo e probabilmente nemmeno l’intenzione.

Basta questo, secondo me, per rendere la serie meritevole di uno sguardo, perché attraversata da una tensione costante che non possiamo definire esattamente “suspense”, ma che ci impedisce di rimanere tranquilli, di dormire sugli allori, perché abbiamo continuamente la sensazione che la vita dei personaggi, già molto precaria, possa crollare da un momento all’altro.

Allo stesso tempo, non è nemmeno il caso di spendere parole troppo altisonanti. American Gigolo è un prodotto onesto, costruito con criterio e ben interpretato, ma non riesce a prenderci lo stomaco come vorrebbe, forse perché la sua aura malata e decadente finisce con l’interferire con le supposte sorprese della trama gialla, che non risultano così ficcanti.

Soprattutto, se l’originale era riuscito a “farsi notare” ed essere provocatorio, pur nei suoi limiti, questa American Gigolo non pare avere la stessa capacità. Né Hollander sembra in grado di dare al suo (pur bravo) protagonista lo stesso spessore e tragicità che avevamo visto in Ray Donovan. Forse perché, dico una cosa banale, qui non ci sono legami familiari così forti.

La seguirò ancora per un po’ e vediamo che succede, ma per la top ten di Serial Minds ci vuole molto di più.

Perché seguire American Gigolo: per la generale solidità dell’impianto narrativo e perché Jon Bernthal è così diverso da Richard Gere, che fa tutto il giro e funziona.
Perché mollare American Gigolo: non si riesce ad andare oltre un onesto mestiere, e di memorabile c’è poco.



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