17 Novembre 2023

The Crown 6 prima parte – Storia, romanzo e simboli di Diego Castelli

La prima parte della sesta e ultima stagione di The Crown ci riporta a un mondo che non esiste ma che dice tante cose vere

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ATTENZIONE! SPOILER SUI PRIMI QUATTRO EPISODI DELLA SESTA STAGIONE

In pura teoria, oggi non doveva esserci questo articolo, per il semplice motivo che non pensavo di avere il tempo o la voglia di vedere immediatamente i primi quattro episodi della sesta e ultima stagione di The Crown, usciti su Netflix ieri sera per me che scrivo queste righe.

Poi, però, non mi è riuscito di fare la cosa contraria, cioè di staccarmi da un racconto che sta per chiudere una grande epopea iniziata alla fine del 2016, e che ora giunge a conclusione con alcune caratteristiche (fortunatamente) immutabili, con nuove domande e criticità, in un contesto per molti versi nuovo, che ci farà collocare The Crown in un punto diverso del grande mosaico delle serie tv di cui a Serial Minds cerchiamo di tenere traccia con una certa fatica ma pure con un po’ di entusiasmo, che sennò chi ce lo fa fare…

Sarà il caso di far fuori subito un tema che con questa ultima stagione, ancora più che con le precedenti, rischia di diventare più importante di quanto vorrei, ma che inevitabilmente si pone e si porrà, cioè quello della fedeltà storica di The Crown.

La serie di Peter Morgan, pur raccontando di personaggi, eventi e ambientazioni che hanno una precisa e riconoscibile controparte reale, non è mai stata un documentario, né ha mai finto di esserlo. Tecnicamente, e ribadisco, tecnicamente, a un certo punto la Regina Elisabetta potrebbe pranzare insieme a Daenerys Targaryen con Jon Snow a servire i pasticcini, e avrebbe comunque fatto qualcosa che sta ancora all’interno dei confini del lecito.

Poi, naturalmente, esiste anche un patto con lo spettatore, per quanto implicito, che dice che no, in The Crown non si vedranno mai i personaggi di Game of Thrones, e tutto rimarrà verosimile e “vicino” alla verità storica dei fatti.
Quanto sia vicino questo “vicino”, e quanto diritto abbiano gli spettatori di lamentarsi qualora questo vicino non sia esattamente alla distanza che vogliono loro, beh, è materia di un dibattito che potrebbe prendere ben più di un articolo.

Questa premessa è necessaria nella misura in cui la sesta stagione di The Crown, raccontando eventi sempre più prossimi a noi (e nello specifico la morte di Lady Diana, il suo rapporto con Dodi Al-Fayed e via dicendo), va a toccare una materia che molte persone conosco decisamente meglio rispetto alla gioventù della Regina Elisabetta, e sul cui rispetto potrebbe dunque essere più sensibile.

Per fare subito qualche esempio: The Crown ci racconta che Diana avrebbe respinto la proposta di matrimonio di Dodi, così che i due, al momento del tragico schianto parigino, sarebbero stati poco più che buoni amici (cosa probabilmente non vera). Allo stesso modo, ci racconta che Carlo è la persona che ha convinto la Regina a mostrarsi più empatica nei confronti della morte di Diana (pare che invece sia stato Tony Blair). E ancora, la serie racconta di Mohamed Al-Fayed, il padre di Dodi, come del “mandante” del fotografo italiano che scattò le prime foto in cui Diana e Dodi si scambiavano effusioni sullo yacht di lui (quando esistono numerosi indizi che potrebbero quanto meno far dubitare di questa teoria che ci viene presentata come pacificamente accettata).

Ecco, io credo che The Crown abbia tutto il diritto di stiracchiare, romanzare, modificare la realtà storica per i suoi obiettivi di resa drammatica (vedremo a breve con quali risultati), come credo che, contemporaneamente, ogni spettatore abbia diritto di decidere per il suo gusto se e quanto di questo diritto si è abusato o meno, ed eventualmente di criticare le scelte fatte dalla produzione.
Per quello che vale la mia opinione, ma giusto per capire perché chiudiamo qui questo argomento, io sono per lasciare tutta la libertà possibile sul romanzare, anche per un motivo molto pratico: dopo aver visto uno o più episodi di The Crown, a me piace molto andare su internet per scoprire cosa è effettivamente aderente alla verità storica e cosa no, con il risultato che la serie, anche quando è inattendibile, mi porta a imparare più cose, fare le mie ricerche, esercitare la mia capacità di distinguere fra realtà e finzione.

Ma almeno questa resa drammatica funziona?
Ecco, io sono da sempre un fan assoluto di The Crown, e non ho mai patito certi supposti cali di chi vedeva, soprattutto nelle ultime stagioni, un avvicinamento troppo pronunciato alla soap opera, in contrasto con la visione più istituzionale e quasi mitologica degli esordi.
In verità, io credo che The Crown si sia sempre adattata ai personaggi che doveva raccontare e ai contesti che doveva dipingere. Raccontare la Regina Elisabetta è anche raccontare di una ragazza che, piuttosto presto nella sua vita, viene investita di una responsabilità inaspettata, che lei sceglie di accogliere in un certo modo, eliminando dalla sua esistenza pubblica qualunque margine, per l’appunto, di soap opera, incarnando un ideale più che una persona, e ottenendo da questa scelta benefici, difficoltà e quant’altro.

L’arrivo sulla scena di Carlo, Camilla, Diana, “chiama” inevitabilmente la soap opera proprio perché così è stata vissuta tutta quella storia da chi la guardava da fuori.
La progressiva secolarizzazione, se così possiamo dire, della Corona britannica è, questo sì, un elemento storico ineliminabile, e il tema non era tanto quello di trattarlo o meno, ma del “come”: provare cioè a inserire quella Elisabetta, per come l’avevamo conosciuta, in un contesto completamente mutato, in cui i vecchi paradigmi non funzionavano più, e in cui era necessario trovare nuove formule per stare nel mondo.

Da questo punto di vista, considero questi primi quattro episodi della sesta stagione nuovamente magistrali.
Larga parte del fuoco è su Diana, sulle ultime settimane prima della sua morte, sui rapporti che intesseva con gli uomini della sua vita (in quel momento Carlo e Dodi), su come la Corona, intesa come famiglia reale tutta, ha scelto di gestire un evento tragico, improvviso, completamente destabilizzante.

La narrazione di Peter Morgan è ancora una volta fluidissima e affascinante, e tocca con pochi tratti tutti gli elementi che ci si aspetta di trovare in quella parte della vita della principessa: il tentativo di fuggire all’etichetta di divorziata del futuro re per costruirsi una nuova identità legata alla beneficienza e al bene dell’umanità; il desiderio quasi ossessivo di restare una buona madre e di trovare nei figli un’ancora in un mare perennemente burrascoso; il rapporto ambiguo con i media, che Diana sapeva manipolare con abilità, ma da cui rischiava anche di rimanere costantamente soffocata.

Quest’ultimo punto, anche grazie alle ottime interpretazioni di Elizabeth Debicki e Khalid Abdalla (l’interprete di Dodi), risulta particolarmente efficace. L’ossessione dei paparazzi per la coppia e lo stesso cambio di paradigma nel loro lavoro – che con Diana diventa una tale, potenziale fonte di guadagno, da distruggere qualunque residuo di dignità professionale – sono resi con grande tensione e grande forza, dandoci la piena impressione di una vita blindata che non permette alcuna apertura, alcun respiro.
Lo si vedeve, particolarmente, quando Diana e Dodi sembrano trovare rifugio in un ristorante di alto livello, solo per scoprire che anche lì saranno oggetto di sguardi morbosi e ossessivi, che li costringeranno alla fuga.

Dall’altra parte, con una punta di ironia, abbiamo Carlo in kilt che, insieme ai figli, si fa fare foto bucoliche da uno dei fotografi più amati e teneri della Regina, in un contesto che diventa consapevolmente ridicolo perché evidenza il solco sempre più grande fra una donna che è uscita dalla famiglia reale e vive nel mondo (un mondo spietato ma comunque vero), e un gruppo di persone che faticano a comprendere di vivere tuttora in una gabbia dorata che si estende anche alle brumose colline scozzesi, ma che realtà è una fortezza impenetrabile in primo luogo perché non interessa granché a nessuno, se non nel momento in cui entra in diretto contatto proprio con l’idolatrata principessa.

In questo scenario sempre più teso, che come detto alterna versioni romanzate della Storia con la ricostruzione precisissima di singole immagini e momenti memorabili (come la foto di una Diana solitaria e pensosa sul trampolino dello yacht di Dodi), i personaggi trovano uno sviluppo che probabilmente li allontana dalla verità dei fatti, ma che li cristallizza in maniera efficacissima nelle loro funzioni narrative, nella loro capacità di farsi simbolo di discorsi più grandi di loro.

Così, quella stessa Diana che probabilmente non aveva fatto in tempo a chiudere un certo percorso di crescita e consapevolezza, in The Crown ci riesce, rifiutando Dodi non per mancanza di affetto o simpatia, ma perché conscia di dover rallentare, di dover trovare il tempo per riflettere sulla propria vita, le proprie priorità, il tempo per combattere con i propri demoni.
Dodi ne esce male, poveraccio, ma il rapporto fra lui e il padre è, di nuovo, straordinario sullo schermo, con il vecchio Fayed che piange sinceramente il figlio, ma nemmeno in quell’occasione di cordoglio dimentica che perfino quella tragedia potrebbe servire allo scopo che ha ossessionato la sua vita, cioè avvicinarsi alla Corona inglese (e all’Inghilterra in generale) ed esserne riconosciuto.
Carlo, per parte sua, riceve una profonda umanizzazione nel suo dolore per Diana, e gli viene concesso di farsi agente di un riconoscimento istituzionale della ex moglie, superando le reticenze della madre e soprattutto del padre, che in un primo momento avrebbero preferito reagire in maniera più silenziosa e composta, per non finire nel tritacarne mediatico.

Ma è proprio qui, in questo sfumare e riscrivere certi personaggi, che vediamo all’opera il grande romanzo seriale.
È del tutto verosimile, e per certi versi pure provato, che Diana non fosse così saggia sulle cose della vita prima di morire, che Carlo non fosse così empatico, che la Regina non fosse così combattuta, e chissà cos’altro.

In The Crown però funziona tutto, e a stupire è la coerenza con cui le linee di sviluppo dei personaggi, partendo da molto lontano, abbiano finito col creare una grande epopea in cui la singola verità storica ne rimane probabilmente cornuta e mazziata, ma in cui, non di meno, si legge chiaramente un Grande Disegno che parla della Corona in quanto istituzione, dei colpi che ha subito con lo scorrere dei tempi, dei tentativi di modernizzarla sapendo che ogni modifica avrebbe potuto rappresentare un’alterazione della sua identità.

Non facciamo l’errore di dimenticare, insomma, che la serie di chiama “The Crown”, e racconta non solo di persone realmente esistite o esistenti, ma di simboli, di strutture, di istituzioni. E racconta per certi versi anche di noi, di quel pubblico che vive la Corona in un certo modo negli anni Cinquanta, e poi in un altro modo dieci anni dopo, e dieci anni dopo ancora, e via dicendo.

Per esempio, c’è un contrasto riuscitissimo fra il clamore di flash, parapazzi e singoli fan che perseguita Diana a pochi giorni dalla morte, e il mesto, commosso, tranquillo silenzio che ne segue il feretro per le strade.
Tecnicamente, è la stessa gente: i paparazzi non sono altro che agenti indiretti delle persone che compreranno morbosamente le riviste con le foto di Diana, disposte a pagare per ogni frammento di carne e sangue e vita che riusciranno a portarsi a casa; le stesse persone che poi, come se niente, non accetteranno di prendere mezza responsabilità per la sua morte, limitandosi a un compassato cordoglio in cui si sentiranno giustissimi.

In The Crown, dunque, non c’è solo l’evoluzione della Corona, ma anche l’evoluzione della gente con lei, in un sistema di spinte e costrospinte in cui i personaggi, anche quando si rischia l’agiografia, diventano simboli di qualcosa che va oltre le loro piccole esistenze individuali.

Insomma, a mio giudizio sono altri quattro ottimi episodi. Se devo trovarci un difetto, cito i fantasmi, cioè quelle due volte in cui Diana (già morta) si trova a parlare con la Regina e con Carlo.
Non si tratta di un vero fantasma, naturalmente, ma solo di un modo per rappresentare sullo schermo i potenziali pensieri dei due personaggi.

Nel suo essere molto tradizionale, perfino molto inglese, mi è sembrata però una scelta un po’ scontata, che tradisce un inciampo nella fluidità altrimenti impeccabile della scrittura di Peter Morgan: in pratica, è come se il nostro autore non ce la facesse proprio a non concedere un ultimo dialogo di Diana con Carlo e soprattutto con Elisabetta, pur sapendo che quel dialogo non è mai avvenuto.
Un’appendice, un what if se vogliamo, che è sembrato un tantino forzato ma che Morgan evidentemente non riusciva proprio a impedirsi.

A conclusione, non posso che attendere con una certa ansia la seconda parte della sesta stagione, che come dichiarato si concluderè il 14 dicembre con eventi che arriveranno al 2005 e che difficilmente potrà contare su cose “grosse” come la morte di Diana. Allo stesso tempo, credo che ci sarà modo di chiudere degnamente un percorso ormai molto lungo, che si fermerà sullo schermo ma continua nella vita reale, con un’altra svalangata di avvenimenti che The Crown, per scelta etica ed estetica, non racconterà, ma che non smettono di riempire i siti internet negli stessi spazi in cui Diana riempiva le pagine di inchiostro.

E poi forse volevo dire qualcosa del ruolo di The Crown nel discorso “Netflix ormai fa le serie generaliste”, ma sto articolo è già lunghissimo e poi finisce che non ho più niente da dire a fine serie.
Ci risentiamo fra un mese.



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