26 Aprile 2024

Shōgun finale – Elogio della quiete di Diego Castelli

Il finale di Shōgun rimane coerente con l’anima di una serie che pareva una Game of Thrones in Giappone e invece è orgogliosamente altro

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ATTENZIONE! SPOILER SU TUTTA LA STAGIONE!

Inizio con una cosa che non c’entra. Sto notando un certo fermento, più che negli anni passati, nei confronti della nostra classifica annuale delle nuove serie tv.
Nel senso che nelle ultime settimane, un po’ sui social, un po’ con messaggi diretti, diversi/e serialminder ci hanno pungolato per spingere questa o quella serie verso il primo posto.

Cose tipo “Baby Reindeer finisce al primo posto, vero?”, oppure “Ma come può Fallout stare sotto Il Problema dei Tre Corpi?”, e poi un messaggio molto recente, di ieri sera, che sosteneva come, dopo l’ultimo episodio, Shōgun non potesse che agguantare la prima posizione.

Sono contemporaneamente lusingato e inquietato dall’importanza che la classifica sta acquisendo per voi, dove l’inquietudine nasce dal fatto che odio il conflitto e vorrei che fossimo sempre tutti amici. Detto questo, l’ultimo messaggio ci consente per l’appunto di parlare del finale di Shōgun, che secondo me non le permetterà di arrivare al primo posto (ma poi chissà, sapete che la classifica può cambiare anche fra sei mesi) e anzi potrebbe essere un episodio abbastanza divisivo, ma che merita la nostra attenzione per tanti altri motivi.

Dell’esordio della serie di Disney+ avevamo già parlato, e immagino che se state leggendo questo articolo è perché il finale l’avete visto, quindi non stiamo a fare troppe premesse.

In queste settimane abbiamo seguito il percorso di John Blackthorne negli oscuri meandri della politica e della nobiltà giapponese, usandolo quasi più come nostra spia in quel lontano Oriente che come personaggio vero e proprio (su questo torniamo).

E se inizialmente avevamo pensato di guardare Shōgun come avremmo potuto guardare una sorta di Game of Thrones con i samurai e senza i draghi, nel corso delle settimane la serie di Rachel Kondo e Justin Marks, tratta dal romanzo di James Clavell, ha acquisito rapidamente una fisionomia tutta sua, potenzialmente deludente per chi si aspettava, per l’appunto, l’approccio da Trono di Spade, ma capace di dare a Shōgun un’identità molto precisa, che a fronte della natura a miniserie dello show, di cui non è prevista una seconda stagione (come non ci fu un secondo libro negli stessi luoghi e con gli stessi personaggi), lascerà Shōgun compiuta e intatta, senza possibilità di tradimenti.

Quello che salta all’occhio, dell’episodio finale, è il suo tono lento, pacifico, quieto. Oddio, anche Game of Thrones aveva i “penultimi episodi” molto accesi e poi i finali più contenuti, ma non vedo perché dovrei autosabotarmi smentendo quello che ho detto giusto un paragrafo sopra.

Il nono episodio di Shōgun era stato probabilmente il migliore della serie, tutto centrato sulla tragicissima figura di Mariko, mandata nella fortezza del perfido Ishido per combatterlo con armi prive di lama: l’onore, la tradizione, le regole dell’etichetta.

Battendosi (con parole e inchini, ma in effetti pure con una lancia) per il proprio diritto a considerarsi libera di spostarsi dove voleva, Mariko aveva esposto sulla pubblica piazza le tensioni interne al “partito di maggioranza” guidato da Ishido, in cui quest’ultimo continuava a porsi come leader democratico e regolare, quando in realtà agiva da despota sia nei confronti dei reggenti suoi pari, sia nei riguardi di Ochiba, la madre dell’erede.

La forza di quell’episodio, naturalmente, stava tutta nella parabola tragica, ma anche nobile, ma anche romantica, di Mariko, che in un’unica puntata riusciva a vivere momenti di grande maestà e compostezza, seguiti da brevi ma pungenti umiliazioni, per arrivare addirittura a ipotesi di suicidio e poi esplosioni di passione in compagnia di John, che un attimo prima era disposto ad appoggiare Mariko nel suo seppuku, tagliandole la testa (!!!!), e un attimo dopo giaceva con lei per una notte d’amore che, mentre la guardavamo, sapevamo avere i crismi dell’ultimo saluto.

E infatti così è stato: quando si poteva sperare che Mariko ce l’avesse fatta, ecco che gli uomini di Ishido, tutt’altro che arreso alla sconfitta diplomatica imposta dalla ragazza, entrano nel palazzo con l’aiuto del pavido Yabushige, e arrivano infine a uccidere Mariko con un’esplosione a cui la donna in qualche modo si abbandona, sottolineando nuovamente la sua protesta contro l’esercizio del potere da parte di Ishido.

Con un pre-finale così, la nostra mente abituata ai fuochi d’artificio hollywoodiani non poteva che attendersi un ultimo appuntamento carico di morte, sangue, distruzione e colpi di spada.

E invece niente. Ma proprio niente, nel senso che l’unica battaglia è una battaglia del futuro, e che nemmeno avviene: lo scontro finale fra Toranaga e Ishido, infatti, non avrà mai luogo, come raccontato dallo stesso Toranaga.

Quello che invece succede è che il sacrificio di Mariko mostra la sua reale ampiezza, così come quella delle macchinazioni di Toranaga.
Di nuovo, l’assoluta certezza che l’avversario di Ishido stesse tramando qualcosa anche quando apparentemente si arrendeva, non ci aveva mai abbandonato.
Allo stesso tempo, pensavamo che la complessa trama ordita da Toranaga ci avrebbe comunque condotto a una battaglia, in cui semplicemente i nostri avrebbero avuto più vantaggi del previsto.

In realtà, il senso profondo dell’episodio è proprio questo: i sacrifici che Toranaga è disposto a compiere (la morte di Mariko, ma anche quella suo migliore amico Toda) sono diretti a evitarla proprio, la battaglia.
Con la morte di Mariko, che provoca grande sensazione nei reggenti ma soprattutto in Ochiba, Toranaga riesce a spezzare il fragile equilibrio su cui si reggeva il potere di Ishido, vincendo la guerra prima ancora che venisse sparsa la prima goccia di sangue sul campo.
L’episodio che ne deriva, dunque, è un episodio in cui non c’è da combattere, ma solo da spiegare, da svelare, e in cui riannodare gli ultimi fili.

Questi fili comprendono la punizione di Yabushige, lui per primo profondamente turbato dalle conseguenze più estreme del suo tradimento (lo vediamo quasi impazzito nelle prime scene della puntata), ma soprattutto il rapporto di Toranaga con John, anch’egli sconvolto dalla morte di Mariko.

Come accennato più sopra, c’è una specie di equivoco che riguarda John e il suo interprete, Cosmo Jarvis.
In linea di massima, Jarvis non è un attore dal carisma memorabile, le sue lenti a contatto blu erano fin troppo evidenti per non causarci un qualche straniamento, e a conti fatti John è un personaggio che non riesce quasi mai a diventare importante, ai nostri occhi, come tutti i giapponesi.

Allo stesso tempo, John svolge pienamente la sua funzione di simulacro degli spettatori (e lettori) occidentali, chiamati ad addentrarsi nel complesso mondo delle regole nipponiche, e nel finale completa anche il suo personale percorso: se all’inizio era un uomo incapace di accogliere gli usi giapponesi, ed era anzi pronto a farsene beffe e a desiderare di andarsene quanto prima da quella gabbia di matti con la passione per il seppuku, alla fine ha compreso così bene gli usi e costumi locali, da essere lui stesso disposto prima a sostenere nel suicidio la donna che ama, e poi a commetterlo lui stesso, in polemica con il suo signore.
Da qui la sua (probabile) decisione di rimanere per sempre nel paese del Sol Levante, trasformando le scene di lui anziano&tornato a casa che vediamo qui e là nell’episodio in niente più che un “what if”, una possibilità mai realmente concretizzata, un incubo che l’avrebbe lasciato amareggiato e senza direzione (la puntata, non a caso, si chiama “Il sogno di un sogno”).

Da qui si deduce il vero senso di Shōgun, o meglio la sua missione. Non è mai stata una serie pensata per mostrarci la solita storia di battaglie e politica, semplicemente calata in un contesto un po’ diverso dal solito.
Al contrario, il suo obiettivo era raccontare proprio quel contesto, e mostrare come la sua alterità influenzasse quelle famose dinamiche.

Perché sì, l’ambizione, il tradimento, il potere, l’amore, l’istinto di sopravvivenza, sono tutti elementi comuni all’umanità nel suo complesso, ma nel Giappone di Shōgun acquistano sfumature e forme particolari, anche quando quello stesso Giappone non è più un territorio vergine e inesplorato, ma un luogo dove, per esempio, è già penetrato in profondità il cristianesimo.

Partendo dal tema dell’onore, e spostandoci di volta in volta su quello della lealtà, o dell’importanza del lignaggio, o dell’obbedienza, Shōgun diventa soprattutto una sfida intellettuale a provare le proverbiali scarpe altrui, a immaginare punti di vista diversi, percezioni differenti sulla realtà e sulle priorità della vita.
Come John, siamo chiamati a stupirci del diverso, ma anche a rimanerne affascinati, a coglierne la composta bellezza, ad apprezzare dettagli che altrimenti, senza un’adeguata preparazione, ci sfuggirebbero.

Alla fine, il tema vero è sempre quello del senso (della vita, delle nostre azioni), con personaggi che danno ordine al caos dell’esistenza nei modi che possono, che gli sono stati insegnati e tramandati.
Se abbiamo la voglia di entrare dentro Shōgun, in dieci episodi capiremo che sì, l’etichetta ha un peso, i gesti tradizionali servono a qualcosa, perfino il suicidio, in certi momenti, diventa parte di un’esistenza in cui la volontà risulta padrona non solo della vita, ma anche della morte, che diventa non solo la fine di qualcosa, ma anche un messaggio, qualcosa che rimane, che ha un significato e un ruolo.

Da questo punto di vista, era stata illuminante la scena in cui Mariko sceglieva di morire, ma si preoccupava delle conseguenze ultraterrene del suicidio, proibito dalla religione cristiana: mondi che collidono, diversi modi di dare senso alla propria vita, e persone che provano a tenere insieme tutto, basandosi su quello che già conoscono, ma abbracciando anche il nuovo, in un continuo rimescolarsi di credenze, valori e pratiche.

Nella sua particolarità e alterità rispetto a certe aspettative, Shōgun potrebbe anche non piacere, proprio perché richiede la disponibilità a entrare in un meccanismo diverso da quello pienamente hollywoodiano a cui siamo abituati.
E questo nonostante il fatto che oggi, nel 2024, abbiamo un’idea più precisa, ricca e articolata di un certo modo di rappresentare il Giappone, formatasi nei decenni proprio a partire (fra gli altri) dal romanzo di Clavell.

Per certi versi, quindi, Shōgun è sì diversa, ma nemmeno così poco familiare, ma è talmente rifinita nei suoi dettagli, talmente coerente nello sviluppo della sua storia e dei suoi personaggi, così precisa nel suo stile e nel suo linguaggio, da imporsi comunque come una delle migliori serie di quest’anno, l’occasione per rimanere ammirati di fronte a un mondo che non c’è più, ma che ancora ci permette di riflettere sul nostro.

Agli autori è stato chiesto della possibilità di una seconda stagione. Hanno già detto che la serie finisce dove finisce il libro e non c’è motivo di allungare il brodo.
Anche questa, a suo modo, è una gradita precisione giapponese.



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