The Acolyte su Disney+ – Un esordio prudente di Diego Castelli
La nuova serie targata Star Wars si allontana dalle vicende degli Skywalker per raccontare il passato dei jedi e della Repubblica
Ormai parlare di Star Wars è un casino. Per lo meno parlarne volendo restare dentro alla discussione collettiva che si fa sul franchise, sulle sue ultime incarnazioni, sul confronto fra queste ultime e i prodotti originali, sulle strategie comunicative e narrative adottate da Disney (che di Star Wars è diventata padrona ormai più di dieci anni fa).
Mettiamola così: sono ormai anni che si fatica a parlare di Star Wars in modo neutro, volutamente ingenuo, perché siamo immersi un chiacchiericcio molto polarizzato fra chi detesta quasi tutto ciò che di nuovo è stato fatto (perché “più brutto”, perché “inutilmente inclusivo”, perché “irrispettoso degli originali” ecc ecc), e chi per reazione, e con pregiudizio quasi uguale, accetta qualunque cosa con la speranza di rimanere aggrappato ai propri sogni d’infanzia.
Secondo me è tutto un gran peccato. Trovo un peccato farsi il sangue amaro sui film e sulle serie tv (anche se capita pure a me), così come trovo un peccato fingere che sia sempre tutto uguale e tutto bello, e che ai vertici di Disney siano geni della comunicazione. Io sono sempre contento quando posso tornare nella galassia lontana lontana, e forse sempre lo sarò, anche se mi tengo uno spazietto per annoiarmi quando non fanno le cose come dico io.
E ora, con questo spirito tranquillone, parliamo di The Acolyte, una serie che ha già scatenato ottocento polemiche che tranquillone non sono.
The Acolyte è un prequel della saga originale, ambientato un centinaio d’anni prima di Luke Skywalker e soci, quando ancora non esisteva il famigerato Impero Galattico e un gran numero di jedi partecipava attivamente alla vita della Repubblica.
Di fatto, più che il racconto di grandi gesta di portata cosmica, The Acolyte ha un’anima da giallo, con alcuni crimini su cui investigare e una protagonista che ha abbandonato da qualche anno l’addestramento jedi (Osha, interpretata da Amandla Stenberg) per poi trovarsi invischiata in una storiaccia che si ricollega ad alcuni traumi del suo passato, quando perse l’intera famiglia in un incendio.
Se vi sembra che stia rimanendo vago, la cosa è voluta, ma basti dire che, in questo inaspettato percorso, Osha ci porta a incontrare alcuni altri personaggi principali (come il suo vecchio maestro Sol, interpretato dal protagonista di Squid Game, Lee Jung-jae), e a fare molte delle cose che normalmente si fanno in Star Wars, nonostante il genere leggermente diverso dal solito: viaggiare nell’iperspazio, incontrare alieni di forma buffa, dialogare coi droidi, ammirare i jedi che si dilettano con Forza e spade laser. Con l’aggiunta, dichiarata esplicitamente da Disney anche se ancora invisibile nei primi due episodi, di un collegamento importante con la saga principale nell’ambito dell’Ordine dei Sith, i cattivi per eccellenza di Star Wars.
Ci sono due elementi di The Acolyte , riguardanti il suo approccio complessivo alla vicenda, che giudico molto azzeccati.
Da una parte la citata scelta di ambientare la storia anni prima dell’inizio della saga più famosa. Onestamente, e nonostante i buoni risultati di The Mandalorian, Andor e Ahsoka, l’impressione è che continuare a insistere su tutte le più piccole pieghe della saga degli Skywalker stia diventando vagamente ossessivo.
Bene allora rivolgersi a un altro “momento”, sapendo che il mondo di Star Wars, per come è costruito, si porta dietro un fascino culturale ed estetico che può anche prescindere da un preciso periodo storico.
L’altra buona idea, che contribuisce ad aumentare lo spessore di quello stesso mondo in una maniera che raramente abbiamo visto nei film e nelle serie ufficiali, è quella di mostrare il lato più burocratico e rigido dei jedi.
Con pochi passaggi, The Acolyte riesce a mostrarci i jedi come una forza politica e di polizia piuttosto fredda e impersonale, che fatica a trovare un equilibrio fra il suo tradizionale ascetismo e una più calda umanità.
Da questo punto di vista, il Lato Oscuro, con la sua passione e il suo istinto, diventa seducente come forse mai prima, e come effettivamente dovrebbe essere, perché molta parte di questa saga si basa sul fatto che il Bene (con la B maiuscola) comporta un certo controllo e certi sacrifici, mentre il Male si propone come un’attraente esplosione di emozioni.
Come dicevamo nel titolo, The Acolyte è una serie prudente, nel senso che prova a imbastire una storia coerente, dei personaggi credibili con certe caratteristiche evidenti ma anche margini di crescita, e un comparto scenografico, costumistico e degli effetti speciali che sia all’altezza di una delle saghe più amate della storia del cinema.
E in questo, tutto sommato, ce la fa.
Quello che, almeno a giudicare dai primi due episodi, a The Acolyte manca, è una spinta emotiva maggiore, un effetto wow. Tutto quello che vediamo ci suona familiare, pure troppo, e il rischio concreto è che, per paura di sbagliare, non si riesca a dire niente di nuovo.
Il ritmo è blando, le scene d’azione numericamente poche, i dialoghi funzionali alla narrazione ma niente di più, il casting forse non tutto azzeccato (per ora Lee Jung-jae mi convince poco), .
È possibile che ci sia pure un equivoco di fondo difficile da risolvere: vero che l’universo di Star Wars è ampio e ricco, ma allo stesso tempo questa è una storia che nasce come racconto di coraggiosi ribelli contro un malvagio impero. Se togli quella dinamica (legittimo, forse a un certo punto necessario), la devi sostituire con qualcos’altro di convincente: un personaggio, una scoperta, uno stile, un’epica che poggi su basi diverse. Se non lo fai, rischia di essere tutto poco appassionante, e non mi sembra che The Acolyte, da questo punto di vista, parta col piede sull’acceleratore.
C’è poi un ultimo elemento, più piccolo, ma che lascia una perplessità grossa. Nel cast di The Acolyte c’è Carrie-Anne Moss, mitica Trinity di Matrix, che interpreta una maestra jedi per la quale la creatrice dello show, Leslye Headland, ha chiamato in causa proprio il vecchio personaggio, dicendo di voler vedere Trinity con la spasa laser e la Forza.
E io dico ok, ci sto, mi piace questo entusiasmo nerd, facciamolo. Poi però nei primi due episodi Carrie-Anne Moss compare per dieci minuti e, senza fare spoiler, chi ha visto anche la terza e quarta puntata mi dice che lì non compare proprio.
Calcolando che stiamo parlando di un’attrice che campeggia molto in grande nella cartellonistica della serie, viene spontaneo dirsi “ma che, ci prendete per il culo?”
No perché la scena che la vede protagonista è effettivamente molto efficace, lei buca lo schermo come sempre, e offre la possibilità di uno sconfinamento molto promettente di Star Wars nel mondo delle arti marziali più tradizionali.
Uno sconfinamento che, però, rimane appeso lì. Se non riapparisse saremmo dalle parti della truffa, e se anche facesse solo metà stagione sarebbe comunque una scelta poco comprensibile, una zappa sui piedi.
In chiusura, giusto per dovere di cronaca, diciamoci che le polemiche “a prescindere” sollevate da The Acolyte riguardano le solite questioni, su tutte un’inclusività molto evidente (in pratica non c’è un solo personaggio caucasico o quasi).
Polemiche abbastanza sterili considerando che quella di Star Wars è una galassia immaginaria e stracolma di personaggi tutti diversi, quindi onestamente chi se ne frega del colore di attori e attrici, ma che poi vengono anche più o meno consciamente sobillate da una certa retorica da parte di chi la serie la produce, e in cui spesso vediamo l’agitarsi di questa o quella bandierina.
Un atteggiamento che mi lascia sempre un po’ stupito, da un punto di vista del marketing: se c’è una cosa che, negli ultimi anni, ha fatto fallire molti prodotti di intrattenimento, è il mettere le bandierine prima delle storie, il messaggio politico prima della forza della messa in scena, specie per prodotti che hanno un core target che non vede di buon occhio lo sventolar di bandierine in sé e per sé.
Fatico a non togliermi di dosso l’impressione che tutta questa faccenda si potrebbe gestire in modo molto più furbo, ma questa sarebbe materia per ben altri articoli e discussioni, che peraltro c’entrerebbero relativamente poco con The Acolyte nello spefico.
In conclusione (ma la conclusione l’avremo effettivamente dopo otto episodi), The Acolyte sembra porsi più o meno a metà dell’ideale spettro composto dai prodotti seriali a marchio Star Wars. Sembra ben superiore ai titoli meno riusciti e irritanti, e penso per esempio a Obi Wan Kenobi e The Book of Boba Fett, ma allo stesso tempo non sembra avere la stessa forza espressiva di The Mandalorian, Andor e Ahsoka.
Di tempo per crescere ce n’è, perché nei sei episodi che rimangono potremmo scovare idee più fresche, scenari più originali, un’azione più incisiva, e magari la risoluzione di un paio di equivoci come il ruolo di Carrie-Anne Moss. Senza contare l’accennato, e dichiarato, intento di raccontarci qualcosa di nuovo e importante sui Sith, con conseguente promessa di cose grosse sotto la voce “cattivi superfighi”.
Speriamo, perché l’alternativa, per The Acolyte, sarebbe rimanere una serie Star Wars senza “enormi” problemi, ma anche priva di pregi memorabili.
Perché seguire The Acolyte: è una porzione poco conosciuta/approfondita dell’universo di Star Wars, che può riservare sorprese interessanti.
Perché mollare The Acolyte: l’inizio è dignitoso ma non fulminante, e la paura è che riesca solo a vivacchiare.