23 Dicembre 2011 2 commenti

American Horror Story: finale di stagione un po’ smortino (?) di Andrea Palla

47: morto che parla!

Copertina, On Air

ATTENZIONE: CONTIENE SPOILER. LEGGETE SOLO SE AVETE VISTO L’INTERA PRIMA STAGIONE.

Come abilmente avrete intuito da titolo e sottotitolo, in questa recensione potrei sbizzarrirmi con una serie di battute simpaticissime che hanno come tematica i morti. Per esempio potrei dire che vissero tutti morti e contenti. O che alla fine quella casa è un po’ un mortorio. O che nell’ultima puntata morirete dalle risate.
Ok, la smetto. Le esaurisco tutte qui e cerco di ritrovare un contegno degno di un sito serio e professionale come Serial Minds.

Seeee, ma chi ci crede?

Comunque, siamo arrivati alla fine della prima stagione di American Horror Story, e la prima cosa che vi vorrei dire è che muoiono tutti. Lo so che è la tipica frase pronunciata dall’amico saccente e un po’ stronzo che ha visto un film prima di voi e con aria sprezzante vi svela un finale scontato e fin troppo semplicistico. Ma tant’è: qui muoiono davvero tutti. Tutti quelli che dovevano morire, almeno. E se da un lato le cose vanno come dovevano andare, dall’altro ci si chiede perché abbiamo dovuto seguire 11 puntate per arrivare poi a questa indegna conclusione apparentemente senza sviluppo.

Se vi ricordate, quando qualche mese fa vi avevamo presentato la serie, il Villa nella sua recensione parlava di un prodotto estremamente particolare, farcito di ogni possibile dettaglio proveniente dal mondo horror. Una scrittura che giocava sull’addizione, e che mirava ad angosciare lo spettatore fornendogli un overflow di situazioni a volte disturbanti, a volte grottesche, e altre volte ancora semplicemente sbagliate; dove con “sbagliate” intendo “tutto il contrario di quello che si dovrebbe fare nella situazione in oggetto”. Una specie di delirio che ha sortito il suo effetto, ovvero quello di attirare su di sè curiosità e disgusto, interesse e paura. Si diceva anche che un gioco del genere poteva essere pericoloso, e per una volta in redazione non sapevamo dare un giudizio complessivo sulla serie, proprio per il fatto che non immaginavamo assolutamente come si sarebbe sviluppata o a quali conclusioni avrebbe portato.

Ebbene, con il senno di poi, possiamo dire che questa prima stagione di AHS, al di là di alcuni cali fisiologici dovuti all’inesperienza, è riuscita a mantenere alto il livello narrativo, sfruttando incessantemente il gioco ipercinetico di cui sopra: dialoghi surreali, momenti concettualmente ridicoli ma al tempo stesso atroci e cupi, un surplus situazionale che ha fatto del troppo la sua ragione d’esistere. E mentre la storia procedeva attraverso la propria sconclusionata timeline, noi spettatori venivamo invasi da un crescente senso d’angoscia e spaesamento.

Tuttavia, nell’ultimo episodio gli autori ribaltano le carte in tavola e agiscono in maniera opposta, ovvero per sottrazione. Per settimane eravamo stati abituati a questa escalation gore e a questa overdose di dettagli occulti, e conseguentemente ci eravamo preparati a un finale col botto, dove l’epilogo più probabile sarebbe stato quello di vedere una sanguinosa lotta tra gli Harmon – vivi o deceduti che fossero – e i rancorosi morti della casa, per la custodia del bambino/anticristo. Invece, quello che era divenuto il tema centrale della serie dalla seconda parte di stagione in poi, viene risolto in poche battute e senza quel piglio orrorifico che ci eravamo immaginati. Il Dr. Harmon muore, punto. Il bimbo buono alla fine torna tra le braccia della mamma, punto. Il toy boy di Constance le restituisce il nipotino malefico sgozzando Hayden. Un momento: sgozzando Hayden?!?!?! Ma non era già morta? Vi confesso che in quella scena ho seriamente pensato a un geniale twist narrativo, del tipo che si scopre che i morti possono uccidere gli altri morti. E invece no, perchè Hayden riappare – più troia che mai – in una delle scene finali con Tate: due psicopatici alla finestra che contribuiscono a lasciare il finale aperto.

Insomma, chi si aspettava che tutti i nodi venissero al pettine, e che quindi la parte horror giungesse a una conclusione quantomeno sensata, sarà certamente rimasto deluso da quest’ultimo episodio. Si resta a bocca asciutta e con tante domande in testa, che forse non perverranno nemmeno mai a una soluzione, se è vero che Ryan Murphy ha dichiarato che ogni stagione di AHS sarà a sè stante, con nuovi personaggi, nuove ambientazioni, nuove storie. Come già accaduto con Lost, l’ultimo episodio appare quindi come una sorta di mondo separato dalla storyline precedente, dedicato più che altro a commuovere piuttosto che a spiegare.

Ma è forse in questo secondo aspetto che c’è, ancora una volta, la potenza della serie. In maniera del tutto imprevedibile, AHS si trasforma in un prodotto tragicomico convincente e spiritoso. Diciamo la verità: la scena in cui i morti cercano di spaventare i nuovi inquilini per evitare che anche loro facciano una brutta fine è assolutamente perfetta; così come lo è il momento in cui gli Harmon scaricano finalmente le proprie tensioni uccidendosi a vicenda in maniera splatter. Seguendo questa chiave di lettura, AHS diventa allora qualcosa di diverso, decontestualizzato dal semplice e superficiale aspetto horror: è invece una sorta di parabola di redenzione, dove ognuno dei personaggi compie un proprio percorso verso la salvezza o più semplicemente verso la consapevolezza dei propri errori. Gli unici esclusi sono proprio Tate e Hayden, confinati fuori dalla casa, lontani dall’idillio felice degli altri abitanti; come se per loro nemmeno quel purgatorio potesse concedere uno smorzamento al rancore che provano. Se ci si pensa, non è banale una conclusione di questo tipo, nè tradisce gli intenti della serie: Murphy non ha mai dichiarato di voler fare una serie banalmente horror, e in effetti nel corso degli episodi quella tematica (nel senso più classico del termine)  è stata solo un aspetto marginale di un prodotto più complesso e articolato, dedicato soprattutto ai personaggi (e al luogo), piuttosto che alle situazioni. Analizzando ogni singola microstoria, si osserva un percorso comune a tutti i protagonisti: una discesa agli inferi, poi una rinascita all’inseguimento di uno scopo, infine una redenzione. Non è un lieto fine fiabesco, è piuttosto un viaggio gotico che metaforicamente conduce a un equilibrio tra quiete e dolore. E così, la casa oscura e spaventosa degli esordi, va a popolarsi lentamente di nuovi inquilini che piano piano – complice anche la nascita dei figli di Vivien, in particolare di quello buono – le donano nuova luce e nuovo calore. La domanda che ci si pone è dunque: gli Harmon dovevano salvarsi dalla casa, o piuttosto dovevano salvare la casa?

Quel che è certo, in mezzo a tanti dubbi rimasti irrisolti, è che abbiamo assistito a una serie tremendamente affascinante. Regia e scrittura si sono sempre mantenute su ottimi livelli. Un applauso va al cast, convincente dal primo all’ultimo (persino quella faccia da pesce lesso di Dylan McDermott, riesce a diventare un figo nell’ultimo episodio), con l’ovvia standing ovation per un’immensa Jessica Lange, elegante e bella come un tempo. Proprio a lei va il compito di estirpare in maniera definitiva il male dalla casa, per farsene carico come una madre, in una grottesca ed epica scena finale in cui la donna si sente finalmente orgogliosa di essere progenitrice di un essere diverso e destinato a grandi cose, non importa se presumibilmente intrise di sangue. Ma proprio l’insistenza su questi aspetti deliranti è ciò che fa sperare che AHS possa entrare nella storia televisiva, al pari di altre serie che similmente avevano giocato tra il plausibile e l’assurdo: Ai confini della realtà e Twin Peaks, tanto per citarne due tra le più epiche.

Sul futuro di AHS ci sono tante leggende e poche certezze. Sembra che il finale della prima stagione abbia fornito dettagli criptici sull’ambientazione della prossima: che sia la Florida dove vive la sorella di Vivien?
Si dice anche che alcuni degli attori torneranno, ma in personaggi diversi. E che in generale le stagioni saranno raccolte autoconclusive di un più corposo lavoro antologico, accumunate da un filo conduttore comune che non necessariamente sarà la casa.

Attenderemo allora con trepidazione la seconda stagione, sperando naturalmente di non morire nel frattempo.
Ok, l’ho fatto di nuovo. Un’altra battuta sui morti. Vi prego, non uccidetemi.



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