10 Ottobre 2011 5 commenti

American Horror Story – Rivoluzione o epic fail? di Marco Villa

Una serie che esploder

Copertina, Pilot

Tanto per mettere subito le cose in chiaro. Arrivato alla fine di American Horror Story, la reazione è stata: è follia pura. O implode in tre puntate diventando una boiata di dimensioni epiche, oppure è avanti dieci anni rispetto a tutto il resto. Probabilmente, però, è tutte e due le cose insieme. Perché American Horror Story non è una serie in grado di compiere scelte. Prende tutto, lo mangia e lo butta fuori a velocità assurde.

Ordine, prego. American Horror Story è la nuova serie di FX. L’hanno creata Brad Falchuk e Ryan Murphy, che già hanno condiviso Nip/Tuck e Glee e all’esordio ha distrutto ogni record di ascolti dell’emittente (30% in più del pilot di Sons of Anarchy, per dire). La storia è tra le più classiche di questo mondo: famiglia con problemi tra marito/moglie prende la figlia adolescente e si trasferisce dall’altra parte degli Stati Uniti. In una casa stregata. Ovvio, loro non lo sanno ancora. Una roba che si è già vista milioni di volte, cosa ci potrà mai essere di così boiata/rivoluzionario?

In un momento in cui tutti giocano al minimalismo e alla sottrazione narrativa, American Horror Story è una serie bulimica, costruita sull’accumulo. Prendete un qualsiasi film horror. Ci sono i classici spunti del genere: le porte che sbattono, le ombre che passano, i rumori. Però, di solito, c’è un solo sviluppo narrativo chiaro: o c’è il serial killer o c’è il mostro, o c’è la cantina che fa paura o c’è il personaggio inquietante che spaventa. In American Horror Story c’è tutto: la cantina che spaventa E la mansarda inquietante, i morti del passato che ritornano E la vicina disturbante (una perfetta Jessica Lange), le allucinazioni E il disagio mentale. Tutto, tutto insieme. Ci potrebbe anche stare, direte voi. Del resto, in True Blood si inventano ogni stagione dieci specie soprannaturali nuove. Vero, però – appunto – lo fanno nel corso di una stagione, non nel corso di un episodio, il primo per giunta. Pensate se nel primo episodio di True Blood vi avessero rivelato, tutti insieme, gli elementi sovrannaturali che sono emersi nel corso di quattro stagioni. Un po’ confusi? Sì, ma anche sbalorditi dall’audacia. Perché, e ritorniamo alla partenza, lo stile narrativo di American Horror Story è follia pura.

Agli autori non interessa scrivere una storia classica, in cui ogni elemento viene prima introdotto, poi spiegato e infine posizionato in modo chiaro all’interno della narrazione. Gli autori si limitano semplicemente a mostrare quello che è necessario. Prendete le parti in cui la figlia va a scuola: non vediamo come sempre tutta la tiritera di lei che arriva con i libri, va all’armadietto, vede di striscio i vip della scuola, li guarda da lontano, piano piano si avvicina, ci litiga, viene esclusa eccetera. No, dopo venti secondi ha già sputato in faccia alla stronza, scena successiva è a terra che si picchia. Totale: meno di due minuti di scena e tutto già fatto e impacchettato. Non è un caso, tutto è così: non c’è una progressione narrativa, ma tante situazioni messe una in fila all’altra, apparentemente a caso. Un po’ come dire: buttiamo dentro di tutto, un senso superiore prima o poi si creerà. E il fatto è che il senso superiore si crea per davvero: da metà in poi, la gigantesca scritta MADDAI cede il passo a una incredulità che non è più schifata, ma seriamente interessata.

Certo, è un telefilm che può respingere, perché tutto è spiattellato in faccia in modo non proprio raffinato. Non solo questi elementi di scrittura, ma anche l’intero apparato visivo, riempito di citazioni e riferimenti con la stessa logica dell’accumulo descritta sopra: c’è l’immaginario horror più classico e il riferimento ai b-movie anni ’70 (sublimato anche dalla citazione di Tarantino, ovvero di chi quei riferimenti li ha già fatti propri e rimasticati), ma c’è anche una colonna sonora che in certi punti è hitchcockiana fino al midollo (lo splendido flashback dell’uomo deturpato) e c’è un chiaro rimando al mondo di David Lynch con la figura della vicina di casa (e forse anche a The Kingdom di Von Trier con la ragazzina Down).

Ho parlato di bulimia, ma anche la disposofobia va bene. Come i disposofobici, che non sono in grado di buttare via nulla – nemmeno i rifiuti – e rendono le proprie abitazioni delle discariche, American Horror Story tiene tutto dentro di sé, come se fosse patologicamente incapace di dire no a un elemento. E siamo alla seconda malattia, perché c’è qualcosa di malato in questo telefilm. Non ci piove. Il dubbio è se si tratta di una patologia che porterà la serie stessa a consumarsi dal di dentro oppure se è una febbre da cambiamento.

Previsioni sul futuro: per una volta, il futuro è imprevedibile. Andare avanti su questi ritmi e con queste modalità non so dove possa portare. Allo stesso modo, tenere questo tono e rallentare tutto non so cosa possa produrre.

Perché seguirlo: perché non si capisce dove possa andare a parare. E poi per la bravura di Connie Britton, che rende ancora più palese l’evidente errore di casting nella scelta del marito, del tutto inadeguato.

Perché mollarlo: perché è una serie che può respingere facilmente. Se siete curiosi e volete qualcosa di diverso, vi stuzzicherà, altrimenti l’effetto sarà quello del gessetto sulla lavagna.



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