19 Luglio 2012 10 commenti

Tra la famiglia e il canile – Il punto sulla fiction italiana di Chiara Grizzaffi

Gi

Cari serialminders,

il mio ruolo, da queste parti, è quello di colmare dei vuoti importanti. L’ho fatto con Mad Men (sempre sia lodato), e adesso, per mostrare la mia versatilità, ma soprattutto per sfuggire allo stalking di Marco Villa, si cambia radicalmente oggetto. Perché mentre qui vi domandavate chi avesse ucciso Rosie Larsen, o chi avrebbe sposato Barney, e versavate fiumi di lacrime per l’addio al Dr House o alle Desperate Housewives, una buona fetta degli italiani si chiedeva: ma Edoardo Rengoni è vivo o morto? Carlo Conforti avrà la sua stella Michelin? Chi ha ucciso Luca Monforte?

Parliamo delle fiction italiane, insomma, e cominciamo proprio dalla proposta Rai: Una grande famiglia, come spiega il titolo, è una saga familiare ambientata in Brianza che ha avuto un buon successo di pubblico, tanto che ne è già stata annunciata una seconda stagione. Ai critici è bastato poco per promuoverla: già il fatto che non fosse una biopic ha fatto quasi gridare al miracolo. Purtroppo, i difetti di tanta fiction (e, va detto, anche di tanto cinema) italiana c’erano tutti. A partire dalla sceneggiatura, telefonatissima: non c’è mistero se ogni tre per due, attraverso le azioni o i dialoghi dei personaggi, si suggeriscono le possibili svolte o i colpi di scena della trama. La prevedibilità come meccanismo rassicurante per lo spettatore è qualcosa da cui non si viene fuori. Altra nota dolente, gli interpreti: non a caso, uno degli hashtag di twitter era #ungrandecanile (qui alcuni dei tweet migliori): tra un mélange di accenti di cui nessuno davvero brianzolo, facce basite che nemmeno Gli Occhi del Cuore, e quella impagabile carrellata finale sui volti di tutti i personaggi che assistono al ritorno del figlio creduto morto (un colpo di scena inatteso come una nevicata sulle Alpi a dicembre), viene da rievocare la tragedia della fiction italiana. Ma se la stroncatura è facile, ci sono almeno due considerazioni da fare: la prima è che la fiction ha battuto anche l’atteso programma di Fazio e Saviano, dimostrandosi una scelta vincente, al di là del fatto che parte degli spettatori la seguissero per i motivi sbagliati (vedi il versante Twitter di cui sopra). L’altra, riguarda l’esposto all’Antitrust perché molti dei “misteri” non si sono risolti, nell’evidente tentativo di creare attese per la seconda stagione. Parte del pubblico è evidentemente poco avvezza ai meccanismi narrativi di tante serie tv, al cosiddetto cliffhanger (il che spiegherebbe, forse, il successo da noi delle serie crime con una struttura verticale). Insomma, si fa presto a dire che fra Una grande famiglia e, che so, Downton Abbey, c’è un abisso: finché una minima spesa (in termini qualitativi) garantirà comunque una massima resa (in termini di ascolti), c’è poco da fare.

Discorso in parte simile per la fiction della concorrenza, Benvenuti a Tavola – Nord vs Sud: lo chef meridionale Perrone (Tirabassi) si trasferisce a Milano e instaura un rapporto conflittuale con il cuoco del ristorante di fronte, il milanesissimo Conforti (Bentivoglio).  La strategia mi pare abbastanza chiara: quali sono le due cose che hanno avuto maggior successo di pubblico nell’ultimo periodo? Al cinema, i due Benvenuti (al Sud e al Nord). In tv, i programmi di cucina. L’addizione è semplice, e Valsecchi si mostra piuttosto bravo a fare i conti. Lo dimostra anche il suo uso di un product placement che definire sfrenato è un eufemismo: iniziare un dialogo sulle pene d’amore della giovane cameriera argentina Pilar con le lodi sperticate a Tezenis e al suo sito non è quello che si dice integrare in modo verosimile i brand nella narrazione, ma poco importa. La fiction, come è facile intuire, gioca sugli stereotipi tra Nord e Sud, e non sempre in maniera sottile: i personaggi del Nord fanno i “ganassa”, dicono taaac, hanno la puzza sotto al naso. I meridionali non sanno la differenza tra golf e minigolf e per ricordarsi il nome di Duchamp pensano ” ‘du sciamp”. Freddi e raffinati i primi, un po’ buzzurri ma di buon cuore i secondi. Come da tradizione, insomma. La novità sembra risiedere, piuttosto, nelle strategie messe in atto per promuovere il prodotto: un concorso via sms – il pubblico può votare la preferita tra due ricette proposte dagli chef – alla fine di ogni episodio; la pubblicazione di un libro di ricette; consigli culinari sui social network. Insomma, se le vicende raccontate e le dinamiche degli episodi seguono pari pari gli schemi della commedia all’italiana, con la conciliazione degli opposti e coppie che si lasciano e si riprendono, per lo meno dal punto di vista della promozione, e della vita del prodotto al di fuori dei passaggi tv, sono stati fatti un po’ di passi avanti. Del resto, di una certa lungimiranza di Valsecchi si parlava già qui.

Ho deposto le armi, invece, di fronte a Le tre rose di Eva: quando nemmeno la comicità involontaria basta più. Comunque, a voler tirare le somme, dal punto di vista dei contenuti sono ben poche le novità: la famiglia è sempre al centro, se c’è un personaggio gay ci deve essere per forza il bigotto con la crisi di nervi, al sud non c’abbiamo la novelle cuisine ma vuoi mettere gli ingredienti genuini ecc.. è evidente che la tv nazionale ha ancora in mente un target “adulto” (cogliete la delicatezza dell’eufemismo) e poco avvezzo ai prodotti più innovativi provenienti dall’estero, e che preferisce puntare su volti noti piuttosto che su attori realmente capaci. Però la fiction è pur sempre uno dei contenuti più apprezzati dal pubblico, a fronte della crisi di altri programmi, come i reality, e varrebbe la pena di fare qualche sforzo in più per migliorarne la qualità.  Altrimenti, dopo #ungrandecanile e #lunaelabrador – dedicato alla fiction L’una e l’altra con Barbara De Rossi e Paola Perego – non oso pensare al prossimo hashtag.



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