11 Marzo 2022

Winning Time: The Rise of the Lakers Dynasty – La schiacciata di HBO di Diego Castelli

Winning Time è una serie sul grande basket, ma soprattutto una grande serie di HBO

Pilot

Stavolta evito i preamboli. Oggi si parla di Winning Time: The Rise of the Lakers Dynasty, la nuova serie di HBO (in arrivo a giugno su Sky e NOW) creata da Max Borenstein e Jim Hecht, basata sul libro Showtime: Magic, Kareem, Riley, and the Los Angeles Lakers Dynasty of the 1980s di Jeff Pearlman, e incentrata sulle vicende della squadra di basket dei Lakers negli anni Ottanta. Parliamo di un periodo sportivamente mitico, in cui i Lakers dettarono legge, in cui sorse la stella di Magic Johnson, e che arrivò qualche anno prima di un altro periodo altrettanto mitico, cioè quello dei Bulls di Michael Jordan, raccontati nel 2020 dal bellissimo documentario di Netflix The Last Dance.

Ora, per quanto mi riguarda il pilot di Winning Time è una gran bella bomba, e ci tenevo a dirlo senza preamboli perché una piccola premessa la dobbiamo fare adesso. La serie merita infatti di essere giudicata sulla base di alcuni elementi a cui di solito diamo meno attenzione, o che magari arrivano in fondo alle recensioni, e che invece qui rappresentano il cuore dell’esperienza.
Prima però parliamo di HBO.

Come probabilmente sapete, e come io e il Villa abbiamo avuto modo di raccontare in varia forma nel nostro libricino che vale sempre la pena di rilanciare, HBO fu la rete che, a fine anni Novanta e inizio Duemila, rivoluzionò la serialità televisiva imponendo un nuovo modello produttivo, distributivo e soprattutto contenutistico, quella della cable tv, che cominciò a mostrare sul piccolo schermo cose che lì sopra non si erano mai viste.

Fu innanzitutto una questione tematica, narrativa, e di tono. Serie come Oz, Sex and The City e poi soprattutto i Soprano, mostrarono la possibilità di una serialità diversa, più matura, più adulta (e cioè, anche ma non solo, più sboccata, più violenta, più pruriginosa).

Ma non fu solo questo, perché non fu solamente una questione di scrittura. Quando nacque quello che tuttora si chiama “prestige drama”, la questione non riguardò soltanto le tematiche crude o i dialoghi vietati ai minori, ma un vero e proprio avvicinamento al cinema anche per quanto riguardava i famigerati “valori produttivi”.

Quando si parla di valori produttivi si fa riferimento a un concetto smaccatamente economico che ha traduzione quasi letterale in quello che in una serie si vede e si sente. Uno show con alti valori produttivi non è solo uno show “scritto bene”, che è il parametro principale con cui solitamente si valutano le serie tv. È uno show in cui le scenografie sono ricche e dettagliate, in cui gli oggetti di scena sono ricercati e decisivi per la creazione dell’atmosfera (specie in una storia ambientata nel passato), in cui gli effetti speciali, se ci sono, cercano di fare più di quanto si sia mai visto prima in tv, in cui il casting si prende tutto il tempo necessario per scegliere i migliori interpreti (magari pure famosi) per ogni singolo personaggio, in cui si permette allo showrunner e/o ai registi di dare un’impronta stilistica al prodotto che gli conferisca una specifica personalità e che lo distingua dalla normale produzione televisiva generalista, spesso appiattata su standard magari pure alti, ma raramente originali.

Nel corso di due decenni abbondanti, HBO è rimasta un faro del prestige drama, e non ha perso la sua visibilità nonostante una concorrenza spietata da parte delle piattaforme di streaming, che in pochi anni sono diventate un soggetto ricchissimo e onnipresente, spesso pronto a mettere in campo risorse ingentissime per produrre serie di alto profilo che, appunto, potremmo definire “prestige drama” (pensiamo per esempio a The Crown di Netflix).

HBO però non molla, può ancora vantarsi di aver creato il drama ad alto valore produttivo più importante dell’ultimo decennio (cioè Game of Thrones), e ora ci presenza una Winning Time che probabilmente non diventerà il riferimento mondiale della serialità (anche per via di una sua certa anima “local”), ma che se guardiamo a quei famosi valori produttivi, è HBO all’ennesima potenza.

Usando come motori principali della narrazione l’acquisto dei Lakers da parte del milionario Jerry Buss (John C. Reilly) e l’arrivo nella squadra, su spinta dello stesso Buss, dell’allora giovanissimo Earvin “Magic” Johnson (Quincy Isaiah), il pilot diretto da Adam McKay (regista di Vice e Don’t Look Up) racconta l’inizio di un’epopea mitica, amata dai fan del basket ma almeno vagamente conosciuta da moltissime altre persone, in quello che è un episodio denso, pienissimo, affascinante, ma anche divertente e del tutto comprensibile.

Sul fronte della scrittura, in questo episodio c’è dentro veramente di tutto: l’NBA di fine anni Settanta che affrontava un periodo di crisi di popolarità; la voglia di Buss di mettersi in gioco per amore della sfida e del successo; la sbruffonaggine di Johnson ma anche i primi ostacoli, il suo genuino amore per il gioco, il rapporto spigoloso ma amorevole con il padre; la personalità difficile ma anche buffa dell’allora coach Jerry West (Jason Clarke); il razzismo di una parte del paese e della stampa che non vedeva bene l’ascesa degli atleti neri e osannava il classico ragazzo americano bianco Larry Bird (di poco più grande di Johnson e stella immortale dei Boston Celtics); il difficile futuro di Johnson, che si scoprirà sieropositivo a inizio anni Novanta.
E si potrebbe andare avanti.

Di nuovo, però, quello che questa volta mi interessa sottolineare sono i valori produttivi. Il pilot di Winning Time è un puro e semplice tripudio di location d’annata, di macchine d’epoca, di costumi ricercati, di centinaia di oggetti di scena precisissimi. Un episodio in cui quel periodo storico trasuda da ogni inquadratura e ogni scorcio, con un valore sentimentale (immagino) particolarmente alto per chi quegli anni se li ricorda e li ha vissuti.

Ma c’è di più. In una serie che racconta la storia vera di una squadra di basket, si pone anche un problema specifico: devi trovare attori che abbiamo visi almeno in parte somiglianti alle controparti reali, che siano alti come loro, e che magari sappiano palleggiare almeno un po’, per non sembrare ridicoli.
Inutile dire che Winning Time spacca tutto, a partire da Quincy Isaiah, interprete di Magic Johnson, che mi pare semplicemente perfetto, ma contando anche Solomon Hughes, a cui è affidata la parte di un altro mostro sacro come Kareem Abdul-Jabbar (nella serie compariranno poi anche attori ben noti come Adrien Brody e Jason Segel). Viene da pensare alle volte in cui, nelle serie italiane, non si trova uno straccio di comprimario che sappia recitare nemmeno quando non gli viene richiesto di somigliare a qualcuno, di essere alto, o di saper giocare a pallacanestro.

Non abbiamo ancora finito, perché dobbiamo anche considerare l’impronta stilistica complessiva. Tutto il pilot di Winning Time è girato (anzi, forse dovremmo dire filtrato) come se le riprese fossero fatte con le telecamere dell’epoca, con quell’effetto sgranato che oggi potrebbe capitare di vedere in qualche film di Tarantino, e che qui arriva a simulare i cambi del rullo di pellicola con appositi marcatori.

Una scelta fotografica che si sposa benissimo con le scorribande di Buss nella Playboy Mansion di Hugh Hefner, o con i sobborghi di Los Angeles dove i giocatori vanno a farsi fare la pedicure, o con gli uffici d’altri tempi in cui pesanti scrivanie di mogano riverberano la personalità aggressiva e maschilista dei loro danarosi proprietari.

Ma nello stile non c’è solo la fotografia. Ci sono anche scelte più piccole ma molto precise e di grande impatto sull’effetto complessivo. Per esempio il fatto che alcuni personaggi parlino direttamente agli spettatori, una prerogativa che ci è capitato spesso di vedere, ma solitamente attribuita a una sola figura (pensiamo al Frank Underwood di House of Cards) che diventa interlocutore privilegiato per chi guarda.

Qui no, qui la possibilità di parlare in macchina viene concessa a più personaggi, e l’effetto è quello di coinvolgere in maniera più diretta gli spettatori depotenziando però il peso di ogni singolo punto di vita a favore di un’impronta più corale della storia.

La prima ora di Winning Time è uno spettacolone. Una montagna russa capace di divertire e interessare, di scavare dentro sentimenti profondi e subito di scansarsi verso la commedia per evitare eccessive pesantezze. Un’epopea capace di toccare con gentilezza e devozione icone indimenticabili, e di raccontare un periodo mitico ammantandolo di quell’aura epica che probabilmente è pure un po’ paracula, ma cazzarola se funziona.

Naturalmente, tutte queste belle parole valgono per il primo episodio. La sfida più grande, per Winning Time, non sarà raggiungere un alto livello (ci è arrivata subito), ma rimanere lì anche quando il budget del singolo episodio calerà un po’, e quando non ci sarà più la regia di McKay.

La storia sotto però forte, conosciuta, già pronta per essere memorabile. Non ci resta che sperare (con una certa fiducia) che duri, ma in fondo anche questa è una metafora dello sport: a volte vincere può essere relativamente facile. Molto più difficile è restare in alto e diventare leggenda.

Perché seguire Winning Time: The Rise of the Lakers Dynasty: è HBO alla massima potenza, per raccontare una storia che già sappiamo essere meritevole di attenzione.
Perché mollare Winning Time: The Rise of the Lakers Dynasty: se del basket non ve ne frega nemmeno per sbaglio perché voi avete votato la vita al cricket.

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