1 Giugno 2023

Ted Lasso finale di serie – Pesci rossi, ma fino a un certo punto di Diego Castelli

Dopo Mrs Maisel e la famiglia Roy, è il momento di salutare anche Ted Lasso

On Air

SPOILER!

L’ultima puntata di Ted Lasso dura un’ora, quindici minuti e venticinque secondi.
E io per un’ora, quindici minuti e venticinque secondi avevo il sorrisone sulle labbra.
Facciamo un po’ meno, perché c’erano i titoli di coda.
Però per diversi minuti ho avuto gli occhi lucidi.

Questa non sarà una recensione come le altre. Un po’ perché le recensioni scritte appena dopo aver visto una puntata mi escono sempre strane, e un po’ perché questo è il terzo addio seriale in pochi giorni, dopo aver salutato anche The Marvelous Mrs. Maisel e Succession.

E non può essere una recensione del tutto come le altre anche perché di solito per scriverle usiamo la testa, mentre di Ted Lasso si può scrivere solo col cuore. E a insegnarcelo, forse un po’ furbescamente, è stato proprio Ted Lasso.

Nelle scorse settimane mi è stato passato un post social di Selvaggia Lucarelli, fan della prima ora della serie, che si incazzava perché la terza stagione non era all’altezza, e se la prendeva quindi con gli sceneggiatori perché avevano rovinato un giocattolo perfetto.

Bisogna dire che io ho un’opinione ambigua di Selvaggia Lucarelli, persona di innegabile talento letterario e satirico, che per mestiere però deve voler male alla gente, criticare, smontare. A volte con pieno merito e profonda legittimità, a volte con la foga di chi, potendo fare solo quel lavoro, se non trova niente da schiaffeggiare, schiaffeggia pure chi non se lo merita.
(e non sto parlando di Ted Lasso: la volta in cui questa polemica di professione mi parve più palese, fu in occasione di certe critiche a Samantha Cristoforetti, rea di apparire troppo in tv e su internet, come se potessimo mai averne abbastanza di una donna che è diventata famosa perché ha una mente gigantesca e passeggia nello spazio)

A onor del vero, però, quelle di Lucarelli non sono state le uniche critiche a questa stagione di Ted Lasso, e noi stessi, specie nel nostro podcast Salta Intro+, abbiamo affrontato la questione provando a capire certe stonature rispetto al passato.

Se dunque mi chiedete se la terza e ultima stagione di Ted Lasso è stata al livello della prima, posso serenamente dirvi di no.
Credo anche di sapervi dire il perché. La prima stagione era stata capace di presentare personaggi diventati immediatamente icone (anche grazie ad alcuni tratti molto netti e poco realistici, ma narrativamente efficaci) e allo stesso tempo aveva messo le basi per una narrazione coerente e sviluppata per gradi, che accanto alle stramberie portate da Ted Lasso nel mondo del calcio inglese, ci raccontasse anche dei suoi problemi personali, piazzando qualche mistero e numerosi ostacoli, e facendoci capire come il tema centrale della serie non fosse il calcio, o l’ambizione, ma più banalmente (anche se non è affatto banale) la salute mentale.

La terza stagione, che girava intorno a un’annata calcistica fatta di iniziali bassi e altissimi finali, ha fatto obiettivamente fatica a mantenere quella coerenza e quella solidità.
Una stagione meno compatta, se volete, perfino a livello di durata degli episodi, che ha consapevolmente accumulato singole scelte e novità comiche (pensiamo a Zava), faticando però a tenere insieme tutto, con il calcio che spariva e poi tornava, lo stesso Ted quasi desaparecido per qualche episodio, le controversie amorose di Keeley-Roy-Jamie che andavano e venivano (a partire da una rottura iniziale di cui tuttora si capisce poco il senso), certe frettolosità nella storia di Nate: avevamo creduto che questa stagione sarebbe stata tutta fondata sulla lotta fra Ted e Nate, ma poi alla fine l’ex magazziniere ha lasciato da solo il Lato Oscuro e ha pure risolto con molta (troppa) rapidità i problemi con il padre.

E però io son qui con il sorriso sulle labbra.
Come faccio a dare grande peso a questi problemi “oggettivi” (brrr, che parole orrenda), se all’ultimo episodio son qui a sorridere come uno scemo?
Forse ha senso interrogarsi sul perché, cosa che potrebbe tornare utile a chi sta sorridendo come me, ma magari anche a chi non se l’è sentita.

Ebbene, io credo che i maggiori difetti di questa stagione di Ted Lasso si trovino se la si analizza, per così dire, alla vecchia maniera. La critica cinematografica e televisiva, professionale o meno che sia, noi compresi, ama applicare formule, far valere anni di studi, etichettare e confrontare, sviscerare e sezionare, per vedere cosa funziona e cosa no, come se un film o una serie fossero un orologio che deve battre l’ora perfettamente.

Solo che etichettare e confrontare, sviscerare e sezionare, dovrebbero essere “alcune” delle attività che si fanno con i prodotti culturali, che però alla base servono a intrattenere, divertire, insegnare, far riflettere. Sennò che li guardiamo a fare?
E se è vero che viviamo in un’epoca – quella dei social – in cui il giudizio su qualunque cosa deve essere immediato, forte, possibilmente in bianco e nero, e soprattutto polarizzante, non è una cosa che ci ordinato il dottore.

Se mi passate la metafora bellica, che di questi tempi suona un po’ funerea, per me le tre stagioni di Ted Lasso hanno rappresentato una vera e proprio bomba gettata sulla serialità di questi anni. Se per tre stagioni abbiamo aspettato ogni puntata di Ted Lasso come un’oasi del deserto, è perché tutto intorno c’era un mondo incazzato, surriscaldato, diviso, polarizzato, e c’era un universo mediale che si faceva specchio di quel mondo. La temperatura gradevole e l’atmosfera delicata di Ted Lasso sono suonate come una rivoluzione.

E se questa stessa funzione non è stata assolta con la stessa forza dalle molte altre comedy che pure hanno popolato la serialità di questi anni (come sempre è stato) lo si deve al fatto che Ted Lasso non è solo una serie comica che si pone l’obiettivo di aprire una parentesi nelle nostre vite piene di problemi. È invece una serie comica che si addentra in quei problemi, che non finge che non ci siano, zittendoli con una risata registrata. Anzi, è proprio nella gestione di quei problemi che trova il nucleo fondante della sua narrazione.

Si badi bene, non è solo una sensazione. È un precisa scelta di intenti che è portata talmente all’estremo da creare perfino alcuni dei problemi che vengono attribuiti alla terza stagione.
Se ci diciamo che la storia di Nate con il padre è stata risolta troppo velocemente (e idem potremmo dire di Jamie e suo padre, e potremmo arrivare a Ted e al chiarimento avuto con la madre circa il suo comportamento dopo la morte, ancora una volta, del padre), ci stiamo in parte dicendo che volevamo che la cosa andasse più a fondo, che facesse “più male”, prima della risalita.

Questa è essa stessa un’abitudine che ci ha inculcato Hollywood: l’idea della discesa agli inferi dell’eroe, e della sua conseguente risalita. Ed è verissimo che tante e tante storie funzionano benissimo così.
Ma Ted Lasso non se lo poteva permettere. Non è una serie adeguata alle scene madri di isteria, né la serie in cui il protagonista può arrivare a tentare il suicidio come suo padre.

Ted Lasso è una serie che parla di salute mentale e di rapporti umani, che lo fa con ottimismo, e che consente ai suoi personaggi di esistere e crescere entro certi limiti, impedendo a se stessa di esagerare per pura volontà di stupire.

Per dirla in un altro modo, più che una serie basata su una storia, Ted Lasso è basata su un gruppo. Di personaggi, di colleghi, di amici.
Se guardiamo a tutta la narrazione di Ted Lasso, e a come i primi episodi fossero dedicati anche alla costruzione di aspri conflitti (Roy-Jamie, Rebecca-Rupert ecc), ci accorgiamo che il vero obiettivo non è mai stata la vincita del campionato (che non a caso il Richmond non vince), bensì la costruzione di un gruppo, di rapporti umani, di una rete di amicizie e di supporti reciproci, che fossero capaci non di decretare un vincitore dei conflitti, ma di cancellare in toto il conflitto.

Se Ted non arriva agli inferi, è perché nel frattempo si è protetto: quando è arrivato in Inghilterra, malgrado il volto sorridente e la battute da americano in vacanza, era solo. Alla fine della serie, quando è pronto per tornare a casa dopo aver migliorato la sua salute mentale, non lo è più, perché ha molte persone intorno di cui si fida e che possono aiutarlo nei momenti di difficoltà.
Questo vale ed è valso per quasi tutti i personaggi, che hanno imparato a fare fronte alle avversità prima di tutto impedendo a se stessi di essere soli.

Non è un caso se l’unico personaggio davvero sconfitto, alla fine di Ted Lasso, è Rupert, ovvero l’uomo che ha obbligato se stesso a essere sempre da solo, roso dalla sete di potere, di vittoria e di rivincita.

Se Ted Lasso non segue tutte le regole della buona narrazione da manuale, in parte è sicuramente perché non ci sono riusciti, ma anche perché, a conti fatti, non ne ha “così” bisogno. Dopo la prima stagione, i personaggi di Ted Lasso sono effettivamente nostri amici, e per volere bene ai nostri amici non pretendiamo l’organizzazione di sole uscite perfette e di soli discorsi giusti, altrimenti siamo degli amici di merda. A volte si sta insieme e basta, a fare gli stupidi.

Per tre stagioni, il mio piacere nel guardare Ted Lasso stava nel ritrovare un gruppo di persone che ho accettato come amiche. E sapevo benissimo che, ogni volta che le avessi ritrovate, mi avrebbero fatto sorridere, o piangere, o intenerire. Non c’è un solo episodio di questa serie, terza stagione compresa, che non regali piccoli e grandi perle, momenti memorabili e improvvise immersioni nella pucciosità più confortevole.

Capite che a me, di fronte a tutto questo, che ci siano più sbavature rispetto alla prima, mi interessa davvero poco.

Per cui, se dovessi rivolgermi alle persone a cui la terza stagione non è piaciuta, o che l’hanno addirittura odiata, dovrei dire così.
Avete ragione. I vostri sentimenti non sono meno legittimi dei miei, e se i vostri sono sentimenti sgradevoli, mi dispiace che li abbiate provati.
Però mi scuserete, se non riesco a volere mare a Roy Kent, che chiede di entrare nei Diamond Dogs, abbaia anche un po’, e una volta diventato allenatore va in terapia perché vuole migliorare.
Mi perdonerete se non posso che amare Coach Beard (si chiama Willis!) che inizia l’ultimo episodio in tanga e lo finisce simulando un’appendicite solo per poter scendere dall’aereo e sposare la donna che ama, in una Stonehenge fintissima riprodotta con sei euro al computer.
Sono certo che sarete comprensivi, se ho applaudito Colin che bacia il fidanzato in campo, come dovrebbero poter fare tutti i calciatori gay di questo mondo.
Me la abbuonerete, se ho apprezzato pure il balletto di saluto dei giocatori davanti a Ted, forse il momento più cringe della serie tutta.
Sarete magnanimi, se vi dico che non c’è difetto tecnico o sbavatura di sceneggiatura che possa compensare, in negativo, la portata etica, filosofica, motivazionale di una serie come Ted Lasso.

Poi certo, non è che una serie tv cambia il mondo. Non è che perché abbiamo visto Ted Lasso, adesso siamo tutti amici, perdoniamo senza battere ciglio chi ci ha tradito, risolviamo ogni nostra ansia e smettiamo di prendercela se la nostra squadra perde (quanto avrebbe da insegnare Ted Lasso al vero mondo del pallone, quanto…).
Ma è un passo nella direzione giusta. Talmente giusta che Jason Sudeikis e compagni sono pure stati invitati alla Casa Bianca a parlare di salute mentale, nella consapevolezza che Ted Lasso ha saputo affrontare argomenti delicati, che le serie tv trattano poco o spettacolarizzano troppo, senza mai appesantirli ma nemmeno senza fare finta che non esistessero.

Ted Lasso ci ha insegnato che anche nei momenti peggiori della vita, se allunghiamo una mano e non ci chiudiamo in noi stessi, probabilmente qualcuno che ci aiuti lo troviamo, e piano piano magari ci diamo una sistemata e troviamo il modo di vivere la vita meglio di come l’abbiamo vissuta ieri, e peggio di come la vivremo domani.

Nell’ultima scena, Ted sta allenando il figlio che gioca a calcio, e dopo un tiro sbagliato gli ricorda di essere un pesce rosso. È un richiamo al secondo episodio della prima stagione, quando Ted, parlando con Sam, gli disse che l’animale più felice del mondo è il pesce rosso, che ha pochissima memoria e quindi dimentica presto anche le cose che sono andata male.
Dopo un’intera serie, quell’invito non suona più come il tentativo di fingere che il male non esista, quanto piuttosto come la spinta ad andare sempre avanti, passo passo, anche quando ci sono cose che vorrebbero tirarci indietro. Se poi abbiamo qualcuno che ci accompagna nel viaggio, è pure meglio.

E comunque Ted, possiamo essere pesci rossi finché vuoi, ma tanto a te non ti dimentichiamo, quindi è inutile che ci provi.



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