30 Maggio 2014 1 commenti

The Office USA – L’epopea della Dunder Mifflin di Sandro Giorello

Nove anni, mille personaggi, tanta bellezza: The Office USA

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[SPOILER ALERT: C’È QUALCHE SPOILERINO, MA NIENTE DI TRAGICO]

The Office è un mockumentary inglese andato in onda sulla BBC nel 2001, scritto da Ricky Gervais and Stephen Merchant. Qualche info su Gervais e Marchant: dopo The Office hanno scritto Extras, The Ricky Gervais Show, Life’s Too Short. Gervais, da solo, ha poi scritto Derek. Merchant da solo ha poi scritto Hello Ladies. Di loro oggi parleremo poco, meglio concentrarsi su Gregory Martin Daniels che nel 2005 ha adattato The Office in America, con Merchant e Gervais accreditati come produttori esecutivi. Qualche info su Greg Daniels: per tre anni è stato nello staff autori del Saturday Night Live, ha fatto l’autore dei Simpsons per sedici anni, ha lavorato a King Of The Hill insieme a Mike Judge (che in molti conoscono per Beavis and Butthead e che adesso ha creato Silicon Valley) e ha scritto nel 2009 un altro mockumentary, Parks and Recreation insieme a Michael Schur (che ha fatto più cose, la più recente è Brookyn Nine-Nine, ma c’è stato anche quel video dei Decemberists ispirato ad un racconto di David Foster Wallace su una possibile guerra nucleare rappresentata da una partita a tennis; video di cui, ad essere sincero, non ho mai capito nulla). Tornando a Parks, nasce così: doveva essere uno spin off di The Office, Daniels e Schur non riuscivano a trovare la giusta chiave e quando Amy Poehler ha dato la sua disponibilità (quella Amy Poehler, che ha vinto quest’anno il Golden Globe come miglior attrice comica in una serie Tv) allora Daniels e Schur hanno deciso di riadattare il materiale già scritto per descrivere la vicende di una piccola amministrazione di un piccolo paese.

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The Office invece parla della Dunder Mifflin che a Scranton, Pennsylvania, vende carta. La PBS decide di dedicargli un documentario per descrivere “Il lavoro in America, dieci anni di riprese, una finestra su vite e relazioni in una piccola azienda americana”, lo leggete nella puntata 17 della nona stagione su un banner pubblicitario sul computer di uno dei dipendenti. Poi tutti i dipendenti andranno a vedere il documentario al bar la sera della messa in onda. E seguirà anche un incontro presso il teatro locale di Scranton dove i dipendenti risponderanno alle domande dei loro fan appena acquisiti. Quindi nella finzione è un documentario vero: ogni tanto vedete i cameramen che entrano in campo e microfoni che spuntano nell’inquadratura, e quando Steve Carell nel 2011 dopo sette stagioni decide di abbandonare la serie, negli ultimi minuti della puntata 22 vi dice “sarà una sensazione meravigliosa togliermi questo peso di dosso”, si toglie il microfono e vi saluta con il labiale perché a quel punto voi non potete più sentirlo.

Che differenza ci sia tra questo e altri mockumentary come Parks, Life is Too Short o Derek, dove non è esplicitato perché ad un certo punto i personaggi siano presi da parte per commentare cosa appena successo o esprimere un parere sulla tal cosa, ecco, non lo so. Ne ho discusso con Marco Villa e m’ha fatto capire che probabilmente non è nemmeno così importante saperlo. Vi posso confessare che alla fine della puntata 22 mi sono commosso, se questo voglia dire qualcosa però non lo so. Quello che so è che, in 9 anni, The Office riesce: a) a farti conoscere in profondità le vite e le relazioni di tutti i dipendenti, sopratutto di quelli più riservati b) crea un legame di empatia tra te e e loro, anche grazie a quella cortesia di stampo narcisista che spesso le persone tirano fuori quando vengono ripresi da una telecamera c) le interviste spezzano il ritmo della narrazione in maniera divertente e aggiungono dettagli utili a capire le battute (l’esatto contrario, per dire, di quei lunghi flashback di Scandal dove per raccontarti un dettaglio allungano il brodo tenendoti in sospeso per decine di minuti). The Office riesce a raccontarti molto bene alcune dinamiche da ufficio, persone che non si conoscono e che passano la maggior parte del loro tempo insieme continuando a non conoscersi. Racconta una certo tipo di incompetenza manageriale più che frequente. Racconta che spesso le posizioni lavorative alto-livello possono essere date a persone con problemi di schizofrenia. Nel suo piccolo ti fornisce la sua breve interpretazione della crisi economica americana.

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Alcune osservazioni. Secondo The Office esistono solo due tipi di persone: i normali, quelli che sanno tenere per sé le emozioni facendosi i cazzi propri aspettando le 5 del pomeriggio e la fine la giornata lavorativa; oppure quelli la cui personalità strabordante non riescono o non sentono il bisogno di trattenerla. I personaggi di questa seconda categoria, sono tre: Micheal Scott (interpretato da Steve Carell), Andy Bernard (Ed Helms), Dwight Schrute (Rainn Wilson). Sul perchè entrambi diventino regional manager della Dundrel Miffin ho le mie ipotesi ma, sempre dopo una discussione con il Villa, ve le evito.

Parto da Andy Bernard perché ci metto meno: spiccato senso artistico, attore di teatro e cantante di un coro a cappella, seri problemi a contenere la rabbia, pessimi rapporti sentimentali e tremendi quelli in famiglia, dove il fratello riesce sempre a fare i duetti in perfetta intonazione con il padre, cosa che lui invece sbaglia sempre. Diventa capo della Dunder quando per le ultime due stagioni: inizialmente è una brava persona, poi, sempre per colpa del fratello, ha un momento di egoismo che tirerà fuori la sua parte peggiore.

Per Dwight Schrute ci vorrebbe un articolo a parte. È un personaggio disegnato benissimo e recitato ancora meglio. Un concentrato di cinismo, violenza, e attitudine contadina (oltre al lavoro come venditore alla Dunder Mifflin gestisce un agriturismo in una fattoria). Dwight Schrute non prova sentimenti per nessuno ma odia praticamente tutti. Ha il remoto desiderio di diventare una sorta di padrone schiavista dell’ufficio, e caldeggia fantasie ancora più indecifrabili su uomini con super poteri che sterminano la razza umana. È l’acerrimo nemico di Jim Halpert.

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Michael Scott è uno dei più bei personaggi mai visti in una serie TV. Insicuro, con una paura atroce di morire solo e per questo sempre in cerca di relazioni amorose che, poi, non è in grado di vivere naturalmente, giorno dopo giorno. Vuole essere il miglior amico dei suoi dipendenti organizza feste a tema, gite aziendali e quant’altro. Michael non sarà mai un vincente, anche quando la Dunder farà profitto in maniera del tutto inaspettata, è palese che non ci sia nessun merito dietro. Anche quando riuscirà a finire il suo film “dopo tre anni di scrittura, un anno di riprese e quattro anni di nuove riprese, e due anni di montaggio”: un’accozzaglia amatoriale di cose alla arma letale, James Bond, robot e hockey sul ghiaccio, 11 anni di lavorazione e ammetterà lui stesso che è una schifezza. Sette anni a dirigere la Dunder Mifflin, con la consapevolezza, sostanzialmente, di essere un fallito e che non lascerà segno nella vita dei suoi dipendenti anche se poi, alla puntata 22, qualcuno lo vedi in lacrime.

Appunti a lato. Durante queste 9 stagioni vi innamorerete fondamentalmente di due persone: di Karen Filippelli, perchè Rashida Jones è ancora un bellezza tuttora ma nel 2009 non aveva rivali. E Kelly Erin Hannon (Ellie Kemper) perché oltre ad esser bella, ti fa ridere.

In conclusione. In 9 anni conoscerete tante persone: tra dipendenti dell’ufficio, manager, quelli del magazzino, la lista è lunga. Quando sarà davvero finito tutto, quando tutti saranno commossi, diranno che “una comune azienda cartiera come la Dunder Mifflin sia perfetta come soggetto come un documentario. Anche nelle cose più comuni c’è tanta, ma tanta bellezza”. In fin dei conti hanno ragione. Dopo vi mancherà qualcosa. Ne ho anche parlato con il Villa, mi ha pure spiegato, ma preferisco tenermelo per me.

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