5 Maggio 2015 13 commenti

Unbreakable Kimmy Schmidt: gioioso commento finale alla prima stagione di Diego Castelli

Alcune preoccupazioni iniziali spazzate via da un grande finale: Unbreakable Kimmy Schdmit è un bel pezzo di serie tv

Copertina, On Air

Unbreakable Kimmy Schmidt

 

Ho finalmente terminato la prima stagione di Unbreakable Kimmy Schmidt (con Netflix sai dove cominci ma non dove finisci) e urge un commento finale.
Se ricordate, ne avevo già parlato qualche settimana fa, e ho l’impressione che tra noi ci sia stato un leggero fraintendimento. Dico tra me e voi, non tra me e Unbreakable. Mi sembrava infatti un’ottima serie, però inferiore a 30 Rock. Al netto del fatto che il confronto vale fino a un certo punto (se ti piace Unbreakable ti piace e basta, che te ne frega dei paragoni), ho l’impressione che l’accento sulla differenza (e sulle aspettative assurde sorte col binomio Tinfa Fey + Netflix) abbia gettato un’ombra sul mio apprezzamento per Unbreakable, che invece è abbastanza limpido: è proprio una bella comedy.

In questo senso, la visione della seconda metà della stagione ha regalato numerose certezze, in un senso e nell’altro.
In primo luogo, confermo che nel confronto con 30 Rock (sempre ammesso che freghi a qualcuno), Unbreakable mi apre uscire leggermente perdente. Non è nemmeno colpa sua, in verità, è anche una questione di tematiche e tempistiche. 30 Rock nasceva dieci anni fa, era più “meta” di qualunque altra serie meta, e ci fece conoscere la comicità di una Tina Fey che fino a quel momento era rimasta abbastanza nascosta nelle pieghe troppo americane del Saturday Night Live, se si esclude il successo di Mean Girls.
Chiaramente, dieci anni dopo quella stessa comicità può avere un effetto allegro e perfino rassicurante, ma di certo meno dirompente. Anche la scelta del tema e del contesto risulta meno ficcante, visto che la prigionia di Kimmy diventa spesso strumento per un po’ di battute a sfondo crono-nostalgico, secondo dinamiche che negli ultimi tempi abbiamo visto anche in altre serie più o meno riuscite.
Quindi insomma, per farla breve ho l’impressione che, se rimarrà su questi binari, Unbreakable sarà meno epocale di 30 Rock, a prescindere dal fatto che tutta l’offerta Netflix è comunque epocale di suo, ma per altri motivi che non c’entrano con la singola serie.

 

Unbreakable Kimmy Schmidt Jon Hamm

 

A questo punto, però, bisogna evitare fraintendimenti. Quindi non solo ribadisco che Unbreakable Kimmy Schdmit è un’ottima comedy, ma rincaro la dose sottolineando come l’ultima parte di stagione sia proprio una figata allucinante.
Tutto gira intorno al processo in cui il reverendo Richard Wayne Gary Wayne deve rispondere del rapimento di Kimmy e delle altre “mole women”. Nei primi episodi Unbreakable era risultata molto divertente, ma forse incapace di trovare una densità narrativa abbastanza forte, soprattutto perché era rimasta legata alle dinamiche familiari di Jacqueline, che assomigliavano fin troppo ai problemi da snob svampita di Jenna in 30 Rock.
Col processo la serie subisce un’impennata clamorosa: praticamente ogni scena e ogni linea di dialogo legata al dibattimento è una genialata. Il trucco, semplice ma efficace, è dare al reverendo un sorriso accattivante, modi affabulatori e una pronta intelligenza dialettica, mentre tutti intorno a lui, dalla giuria al giudice passando per gli avvocati dell’accusa, sono degli idioti totali. In questo modo, anche giocando sul paragone con i tanti legal che ogni serialminder ha in testa, non solo viene assicurato un effetto comico quasi sempre disarmante, ma anche una vera e propria suspense, nel momento in cui cominciamo a sospettare che il bastardone potrebbe davvero riuscire a farla franca nonostante la sua evidente colpevolezza.
A dare ulteriore pepe al piatto ci pensano poi le due guest star: è la stessa Tina Fey a interpretare l’avvocato dell’accusa, che insieme al suo degno compare/compagno non è in grado di mettere insieme due frasi di senso compiuto, causando più danno che altro. E ovviamente poi c’è lui: la parte del reverendo è stata data a Jon Hamm, e gli applausi si sprecano. In passato Hamm ha già dato sfoggio della sua verve comica, ed è stato più volte ospite della stessa 30 Rock. Eppure ci stupiamo ogni volta di quanto possa essere imbecille, considerando che l’immagine che tutti hanno in mente è quella del fascinoso Don Draper di Mad Men. Il contrasto fra queste due anime dell’Hamm, nemmeno fossero due gemelli dal carattere opposto, continua a mettere piacevolissimi brividi.

A conclusione bisogna spendere una parola per Tituss Burgess, interprete di Titus, che forse è il vero vincitore della serie, anche più dell’ottima Ellie Kemper. Burgess riesce nel difficilissimo compito di essere un classico gay televisivo (tutto moine e passione per il musical) ma contemporaneamente anche un personaggio pienamente caratterizzato e immediatamente riconoscibile. La sua fame di successo (dalle conseguenze tragicomiche), le battute sempre divertenti, la sua straordinaria espressività visiva e vocale, rendono ogni sequenza che lo vede protagonista una specie di one man show. E poi c’è Peeno Noir, che è un po’ la hit dell’estate 2015 e di tutte le estati a venire.

La prima stagione di Unbreakable Kimmy Schdmit è dunque pienamente approvata. Buoni personaggi (un paio già memorabili) e una storia che dopo qualche banalità iniziale trova un’ottima quadratura negli episodi finali, quasi perfetti. Che poi debba diventare più o meno importante di altri lavori di Tina Fey, vabbe’, a sto punto anche chissenefrega.

 

 

POSTILLA SERIA
La prima stagione di Unbreakable Kimmy Schmidt è stata anche funestata da un brutto fatto di cronaca. Non molto dopo il caricamento online della serie è giunta la notizia del suicidio di Fredric Brandt, che potremmo definire, usando quelle terminologie da settimanale di bassa lega, “dermatologo dei vip”. Ebbene, proprio Brandt era stato oggetto di una parodia abbastanza velenosa in Unbreakable, dove a interpretare un personaggio simile a lui nell’aspetto (e molto più folle nel comportamento) era stato chiamato il mitico Martin Short. Brandt soffriva di depressione, e potete bene immaginare come sia facile, nel mondo della stampa scandalistica, associare in quattro e quattrotto il suicidio del medico con la parodia non proprio gentile. Una sorta di smentita è arrivata abbastanza presto da parte di fonti vicine all’uomo, persone che hanno sottolineato come il gesto sia stato causato da tanti fattori ben più importanti di un telefilm, ma come allo stesso tempo quella scena l’avesse colpito molto e in maniera certo non positiva.
Sono volate anche parole forti, accuse a Tina Fey di prendere in giro le persone solo perché fisicamente diverse. La mancata replica di Netflix e della stessa Fey ha evitato che montasse una polemica probabilmente poco elegante e comunque perdente per il network.
Non che io ora voglia pontificare in merito, ma era giusto segnalare anche questo fatto, in chiusura di articolo. Credo anche che sia umano provare compassione verso una persona rimasta ferita da qualcosa su cui non aveva alcun controllo, e sarebbe forse facile condannare la parodia come esempio di cattivo gusto. Ma farlo a posteriori dopo averne riso sarebbe troppo facile ed evidentemente ipocrita. La verità, forse più banale, è che se Brandt si fosse ribellato alla parodia ora saremmo qui a insultarlo per lo scarso sense of humour. Il suicidio insomma cambia le carte in tavola, impone un nuovo punto di vista. Ciò detto, credo si possa e si debba conciliare un doveroso rispetto per un povero diavolo malato con la consapevolezza che la comicità non si può zittire solo per non rischiare di offendere qualcuno. Certo, far rispuntare ora il dottore di Martin Short, quello sì sarebbe cattivo gusto. A parte quello, the show must go on.

Brandt



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