30 Gennaio 2019 3 commenti

Unbreakable Kimmy Schmidt: un addio piccino, ma l’amore resta grande di Diego Castelli

La serie di Tina Fey chiude un po’ in sordina, ma ci lascia tanti bei ricordi e un affetto imperituro

Copertina, Necrologi, On Air

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SPOILER SUL FINALE DI SERIE

Trovandoci a parlare del series finale di Unbreakable Kimmy Schmidt (sad face emoji), viene spontaneo provare prima di tutto un certo imbarazzo nei confronti dell’evento in sé.
Perché stiamo parlando del finale di Kimmy Schmidt? Cioè, perché è “già finita”? Quattro stagioni per una bella comedy di Netflix, capace di racimolare negli anni qualcosa come diciotto nomination agli Emmy (pur rimanendo a bocca asciutta in termini di vittorie), sembrano davvero poche. Per lo meno se comparate con un sacco di ciofeche rinnovate per anni e anni, e che magari hanno pure l’ansia da prestazione della tv tradizionale.
Non che Netflix non abbia mai cancellato niente, anzi: da ormai un po’ di tempo è evidente come la famosissima piattaforma di streaming si sia infilata in una specie di orgia produttiva per cui costruisce decine e decine di storie (seriali o meno) per coprire qualunque potenziale target di pubblico, non facendosi però problemi a cancellare quello che non funziona.
Ma Kimmy? Perché Kimmy?

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A voler ben guardare, il motivo della sua cancellazione viene ufficialmente dai suoi autori. Già prima della scorsa estate Robert Carlock, showrunner della serie e co-creatore insieme con la mitica Tina Fey, spiegava che proprio nell’atto di scrivere la quarta stagione si erano resi conto che poteva essere il momento giusto per piantarla lì. Cosa che, da un certo punto di vista, non dovrebbe nemmeno spiacere a quei serialminder che temono sempre il momento in cui una serie molto amata diventa troppo lunga. Allo stesso tempo, l’effettiva mancanza di una stagione “brutta” lascia inevitabilmente col dubbio che ci fosse ancora margine per fare cose buone.

A questo però si deve aggiungere un sentimento che non so quanto sia condiviso, ma che a noi pare abbastanza evidente: qualcosina in Unbreakable Kimmy Schmidt si era rotto. Non nella serie in sé e per sé, beninteso, quanto piuttosto nel suo posizionamento nell’universo seriale. Capisco che un’affermazione del genere possa far venire la bava alla bocca ai fan duri e puri, ma se guardiamo con attenzione ci rendiamo conto che, dopo una prima stagione scoppiettante e una presenza forte di Kimmy & Co. sui social e su tutto quanto fa rumore e chiacchiericcio (fondamentali per Netflix), la serie era un po’ sparita dal radar.

Difficile dire perché, pur considerando il fatto che Kimmy non è esattamente una comedy per tutti-tutti. Al giorno d’oggi le serie sono così tante, e siamo così costantemente bombardati da tonnellate di immagini, episodi, promo, trailer, meme ecc, che predire l’evoluzione della fama di una serie sulla sola base della sua qualità, senza considerare il mondo che ha intorno, è quasi impossibile. Ed è forse la stessa Netflix, con la sua bulimia creativa e distributiva, ad aver creato una parte del problema, con le sue schermate sempre piene di nuovi titoli, in cui i ritorni spesso finiscono negli angoli nascosti, anche quando sono cose che abbiamo già seguito e apprezzato.

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Vabbè, un tema troppo vasto per affrontarlo in un singolo articolo. Qui si finirebbe a parlare di algoritmi e di strategie social, quando a noi interessa soprattutto parlare di episodi e personaggi. Però non si può negare che Unbreakable Kimmy Schmidt sia arrivata al suo finale un po’ in sordina, un tantino nascosta. E in fondo è un peccato, perché l’ultima tranche di episodi mette insieme un gran numero di chicche, anche se forse si perde un pochino proprio sul finale, a riprova del fatto che c’è qualcosa di frettoloso e non previsto.

Elencare un po’ di spunti di questi ultimi episodi sarebbe facile. Basterebbe citare le guest star, da Ronan Farrow – che introduce e in qualche modo commenta il tema delle molestie, in relazione alle attenzioni particolari riservate a Titus da parte di un pupazzo – a Steve Buscemi, passando per un esilarante Zachary Quinto e Greg Kinnear (anche se forse il migliore è Jon Bernthal, il Punitore che viene a recitare in un episodio in cui si parla in continuazione di Daredevil).
Oppure potremmo citare la parodia di Cats, che Titus scopre essere un musical senza senso in cui ognuno fa quello che vuole, o anche l’attaccamento morboso di Kimmy alla madre e al padre, di Josh, visti come surrogato dei genitori che lei non ha mai avuto.
Ma tutte le citazioni di questo mondo non valgono l’episodio 9, la puntata “pazzerella” di questa stagione, che stavolta non è solo divertente, ma anche capace di trasmettere qualche messaggio più generale, incastrato in una narrazione complessiva che in Kimmy, comunque, è sempre stata leggera e sfilacciata per scelta.

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L’episodio “slinding doors”, in cui la citazione esplicita del film con Gwyneth Paltrow apre le porte di un mondo parallelo in cui Kimmy non è mai stata rapita, ci mostra una versione alternativa di tutti i protagonisti che naturalmente, grazie a piccolissimi cambiamenti negli eventi della loro vita, sono arrivati a esistenze diversissime. La puntata è stracolma di gag, una mitragliata di comicità in cui bisogna stare attenti a tutto, dialoghi, immagini ed espressioni, per cogliere tutte le più minute citazioni e battute. Lo stile d’altronde lo conosciamo, e la comicità di Tina Fey è proprio questo calderone ribollente di dettagli piccoli e grandi in cui la comedy è sempre qui e ora, sempre attuale, sempre legata a una stupidità così creativa dei personaggi, da fare tutto il giro e farli sembrare quasi geniali nella loro idiozia.
Eppure c’è anche un messaggio di fondo: il divertimento del what if termina con Kimmy e Titus insieme sul divano, a rendersi conto che quello che sono, la loro identità, viene anche dalle sfighe, dalle situazioni traumatiche, capaci comunque di insegnare qualcosa e creare la base per persone migliori e più consapevoli.

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Ed è proprio da questa consapevolezza che arriva un finale abbastanza preciso, anche se un po’ più debole. Nel tentativo di costruire un vero addio da sitcom, con “vissero felici e contenti” per tutti e in cui ogni filo venga riannodato, assistiamo a un classico “qualche anno dopo” in cui Kimmy è ormai una scrittrice di successo (col suo fantasy allegorico che insegna ai bambini a trovare un posto sicuro in cui stare), Titus un attore amatissimo e un felice padre di famiglia, Jackie un’agente affermata e anche lei romanticamente appagata, e Lilian la nuova voce della metropolitana, un modo buffo ma riuscito di farla diventare in qualche modo la “voce di New York”.

È tutto puccioso e in fondo piacevole, perché quando amiamo dei personaggi vogliamo vedere il lieto fine, ma allo stesso tempo arriva un po’ improvviso: di solito, i buoni addii delle comedy riescono a far sentire il peso degli anni di storie, vanno davvero a chiudere una pagina di vita aprendone un’altra che non vedremo mai, e questo con Kimmy non avviene pienamente, per vari motivi (fra cui lo stile comico di Tina Fey e la mancanza di un vero luogo-simbolo della serie, come poteva essere l’appartamento di Monica e Rachel in Friends o l’ospedale di Scrubs).

Quello che ci rimane, dopo la visione di questi ultimi episodi, sono dunque sensazioni contrastanti. Nella girandola infinita delle serie e delle puntate, il finale di Unbreakable Kimmy Schmidt arriva in punta di piedi, senza conti alla rovescia e psicosi collettiva tipo Game of Thrones, e porta a conclusione una serie che pensavamo sarebbe durata almeno il doppio. Lo fa in modo forse troppo rapido, ci saluta un po’ improvvisamente, ma riesce comunque a far passare il suo messaggio, un ottimismo per la vita e il riscatto che passa agilmente in mezzo all’intricatissima foresta di gag partorite a ripetizione in questi quattro anni. Forse ci aspettavamo che, al momento di salutare Kimmy e gli altri, la cosa avrebbe assunto le proporzioni di un grande evento. Così non è stato, ma l’amore per questi personaggi quello era, e quello rimane.

PS C’è solo un vero risvolto positivo nell’addio di Unbreakable Kimmy Schmidt: che non dovremo più scrivere “Unbreakable Kimmy Schmidt”.
Ogni volta devo andare a rivedere come diavolo sono disposte le lettere…

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