30 Marzo 2016 8 commenti

Daredevil 2: doppia recensione perché non ci riusciva di stare zitti di La Redazione di Serial Minds

Diavoli, punitori, amazzoni e ninja!

Copertina, Olimpo, On Air

Daredevil chains

E va bene Netflix, vuoi far uscire i tuoi episodi tutti-in-una-volta? Bene, allora ti becchi le recensioni tutte-in-una-volta!
Impossibilitati a tenere la bocca chiusa su Daredevil, ne scriviamo in due: prima il Castelli, poi il Martino. E nessuno dei due ha idea di cosa abbia scritto l’altro. Massima libertà, sperando diventi massima analisi e non massima ripetizione.
Anche se era chiaro fin dall’inizio chi avrebbe sbrodolato più parole fra i due…

SPOILER DAPPERTUTTO

Togliamoci subito la scimmia dalle spalle, ché scrivere con il primate aggrappato al collo non è mai facile.
La seconda stagione di Daredevil è bella. Bella da sospirone di sollievo.
Non è che temessimo “davvero” che potesse diventare orrenda, ma dopo una prima stagione così potente, e soprattutto così nuova, c’era comunque la paura che in qualche modo potesse deludere. Paura irrazionale, ma vaglielo a dire allo stomaco. Fortunatamente siamo qui a confermare che è andato tutto bene. Magari non c’è più lo “stupore”, ma almeno c’è la “sicurezza”.

Daredevil

Ora entriamo nello specifico.
L’anno scorso non avevamo avuto occasione di dire una cosa importante e basilare, e cioè che Daredevil è un eroe perfetto per la tv e ancora più preciso per Netflix. Non ha poteri semi-divini alla Thor e nemmeno si dondola fra i grattacieli come l’Uomo Ragno, quindi non c’è niente di male nel fatto che Daredevil sia soprattutto un tizio vestito di rosso che picchia i cattivi saltando qui e là. Sembra una sciocchezza e non lo è, perché puntare su un eroe che può integrarsi al meglio col tuo budget elimina alla radice un sacco di possibili ridicolaggini.
Ma non è solo questione di soldi, perché anche la tv può permettersi più o meno degnamente i Flash e le Supergirl: in linea con il resto dei suoi drama, senza inseguire a tutti i costi l’ironia colorata della Marvel cinematografica, Netflix ha puntato fin dalla prima stagione su un eroe profondamente umano. Ok, ha i supersensi, però è anche cieco. Ok, è un formidabile picchiatore, ma questo non gli impedisce di essere menato in continuazione, pieno di lividi a ogni episodio. Ok, sa letteralmente ascoltare il cuore delle persone, ma questo non vuol dire che sappia gestire al meglio qualunque relazione, lavorativa, sentimentale o d’amicizia.
Un supereroe così umano, dunque, da rendere credibili anche situazioni e singole inquadrature che altrove valuteremmo come troppo cheap. Pensate a quante volte Daredevil sale o scende le scale. Ce lo vedete Thor a far le rampe? Ma anche gente più normale come Capitan America o la Vedova Nera. Sono eroi che il grande schermo ha deciso di rendere letteralmente super-umani, e quindi poco avvezzi a tutto ciò che non sia apparire come tali. Invece in Daredevil l’eroe può anche percepire i nemici col superudito, ma poi deve fare le scale per andarli a prendere. Altrove sembrerebbe una pagliacciata, qui è delizioso e tenerissimo, a misura di un personaggio che è per davvero un affaticato, sanguinante, coriaceo eroe di quartiere, uno come noi.

matt2

Se parliamo di umanità di Daredevil, possiamo dire che la seconda stagione calca la mano anche più della prima. Qualche giorno fa abbiamo scritto di Punisher, della sua costruzione, e di come la sua vicenda si intersechi con quella di Matt per raccontare soprattutto le paturnie di Daredevil. L’arrivo di Elektra e il ritorno di Stick non hanno fatto altro che approfondire ulteriormente la questione. È vero che viene introdotta la Mano con tutto quello che ne consegue, non ultimo l’inserimento di un tema soprannaturale che fino a quel momento era rimasto abbastanza estraneo alla serie. Ma in realtà le grandi questioni riguardano sempre e solo Matt Murdock e la sua identità di supereroe. Questa seconda stagione è la continua ricerca di una risposta di Matt alla domanda “chi sono io?”

A rendere il concetto per nulla banale c’è la sempre maggiore presa di coscienza che il protagonista fatica a essere Matt Murdock e Daredevil. È un tema non nuovo nell’universo fumettistico Marvel, non solo per il classico mantra dei “supereroi con superproblemi”, ma proprio nello specifico di alcune figure che più di altre mostrano la difficoltà di coniugare immagine pubblica e privata (primo fra tutto lo stesso Uomo Ragno).
A rendere pregevole il tutto è però l’eleganza con cui il tema viene costantemente inserito in scene e storie che sembrano parlare d’altro. Guardiamo ad esempio il processo a Castle, che di suo offre discreti momenti di tensione drammatica, ma la cui funzione è soprattutto una: sottolineare che durante il dibattimento Murdock non c’è. Se la stagione inizia con una stabile amicizia e una possibile storia d’amore, finisce con la solitudine di un uomo che deve scegliere fra l’essere un semplice avvocato (con famiglia e affetti) o un eroe notturno (figo sì, ma solitario). A Matt viene chiesto di fare una scelta, e per dodici episodi non sa che pesci prendere. Non può rinunciare a essere Daredevil, ma non è nemmeno pronto a sacrificare tutto in nome del Diavolo di Hell’s Kitchen.
Alla fine sembra quasi che voglia scappare dalle sue responsabilità: nell’ultimo dialogo con Elektra, prima dello scontro finale con la Mano, Matt dice di voler fuggire con lei, di voler andare lontano. 
Peccato che non può, e la ragazza lo sa benissimo: Matt non può lasciare New York, perché l’intera sua esistenza e la sua identità sono perennemente legate alla città e alle sue contraddizioni. E per non sbagliare, a scanso di equivoci, Elektra trova la (momentanea) morte in quella stessa battaglia, lasciando Matt senza alcuna possibilità di fuga: il suo destino è ancora quello di avere due identità, sacrificando la propria sanità mentale in nome di un bene superiore, qualunque esso sia.

matt e stick

Questo mi pare il nucleo fondamentale (e più interessante) della serie finora. Ed è il più interessante non perché sia originalissimo, ma perché viene trattato con uno spessore e una durezza che altrove vengono soffocati dalle esplosioni, dai superpoteri o dai bisticci da teen drama (sì Supergirl, parlo con te).
Qui no, qui si menano in continuazione, ma non manca mai il tempo per un momento di amarezza o di nostalgia, per una lacrima che scende sullo sfondo di un tetto fumoso, appena sotto la sagoma incombente di un grattacielo sfocato. Non c’è Daredevil senza New York, e non c’è New york senza Daredevil, come sembra dirci ogni singola inquadratura che rifugge il glamour distruttivo degli Avengers, in nome di ambientazioni sempre buie ma in qualche modo familiari, dove il protagonista può muoversi meglio che a casa sua.

castle

Chiaro che però a tutto questo si aggiungono alcuni dettagli e personaggi di importanza decisiva. Dopo i primi quattro episodi dedicati quasi solo a lui, il Punitore ha proseguito nel suo percorso rivelandosi uomo inabile ai compromessi. Dopo averlo temuto all’inizio, abbiamo imparato a voler bene a Frank Castle, siamo riusciti a capire da dove arriva la sua rabbia e per questo riusciamo anche ad assolverlo, ma non c’è mai stato un momento (meno male) in cui Frank abbia sollevato il piede dall’acceleratore.
Un po’ come per le questioni identitarie, a Devil e compagnia è stato chiesto di cercare un compromesso, di trovare il grigio in mezzo al bianco e al nero: non potevano portare Punisher dalla loro parte, considerarlo pienamente uno di loro, ma sono riusciti in qualche modo ad accettarlo, ad ammetterne l’esistenza in quanto tale, magari non condividendone i metodi ma riconoscendone le qualità, lui che è un violento assassino ma che un codice d’onore continua ad averlo (è già qualcosa in confronto a tutti gli altri criminali che popolano Hell’s Kitchen).
Ancora una volta, l’ottima regia ha saputo giocare con queste dinamiche, affidando a Frank le battaglie più cruente, facendo esplodere la violenza più feroce proprio quando ce ne stavamo dimenticando, quando eravamo assuefatti ai combattimenti più soft di un Daredevil votato al non uccidere. No, qui non siamo in Ant Man, e nemmeno in Agents of SHIELD, qui è pieno di gente terribile che fa cose terribili, anche fra i “buoni”.
Alla fine della stagione, comunque, Castle è un alleato, ha il costume col teschio che i fumettari esultano, e Matt non sente più il bisogno di dargli la caccia come nei primi episodi. Forse perché lo stesso Devil, spinto dagli eventi, è venuto a patti col concetto di “eccezione”.

elektra

Meno ficcante il personaggio di Elektra. Ha un percorso più tradizionale, da ragazza sbandata e affascinante che prova a trovare una via d’uscita dall’oscurità, senza però riuscirci. La sua morte fra le braccia di Matt, immagine fra le più classiche che si possano immaginare, è una conclusione un po’ banale, anche se la guerriera ha avuto il pregio di mostrare a Matt un’altra via d’uscita dalla moralità: se Castle aveva puntato sull’alternativa fra due mali (spari a me o spari a lui), Elektra incarna l’immagine più suadente del lato oscuro, la fascinazione della violenza e dell’omicidio come eleganti forme di liberazione dal male. Tutte tentazioni diaboliche a cui il diavolo Daredevil ha dovuto resistere per mantenere un’identità che a oggi è ancora piuttosto confusa, ma non ancora compromessa.
Forse esiste un problema femminile, in Daredevil, se è vero che anche Karen è risultata un po’ spaccapalle. Anche lei ha il suo bel percorso, da potenziale fidanzatina di Matt a groupie del Punitore, ma c’è qualcosa di un po’ fastidioso nel suo accanimento, nella sua perserveranza. È strano, perché la serie cerca di venderla chiaramente come una donna forte ma insieme sensibile, sconvolta dagli eventi ma incapace di arrendersi, votata alla Verità. Epperò spesso avremmo voglia di prenderla a ceffoni. Forse piange troppo, o forse ci sembra il classico personaggio che sta sempre in mezzo alle situazioni pericolose senza avere i mezzi per difendersi. Come dire: “spostati, cazzo, non vedi che ti sparano”. Speriamo almeno che la scelta di Matt di rivelarsi, ultimo disperato tentativo di tenere insieme tutti i pezzi della sua vita, la porti a essere un po’ più elastica quando il suo amico/spasimante/boss fa tardi al lavoro.

Foggy

Queste però sono piccole cose, a fronte di un paio di difetti invece più vistosi.
La parte centrale di questo ciclo di episodi, diciamo 5-6-7, è apparsa un po’ più debole del resto, posizionata nel limbo che va dalla cattura di Castle alla comparsa della Mano.
Soprattutto, a questa stagione è mancato un cattivo davvero potente. Non è un caso che le scene con Fisk siano meravigliose: il malvagio Kingpin riempie lo schermo con la sua mole e il suo carisma, e la gioia affannata nel vedere all’opera la sua intelligenza criminale è il simbolo della mancanza di qualcos’altro.
Rappresentata soprattutto come un’infinita orda di ninja armati di spada e calci, la Mano è un nemico potente, uno dei più tradizionali per Daredevil, ma è anche un nemico spersonalizzato, primo di volto, su cui non è possibile innestare una psicologia che la renda vero “personaggio”. Idem per Blacksmith, sempre solo raccontato e mai mostrato.

Questa stagione, insomma, non aveva il suo Wilson Fisk, e questo è il motivo per cui quando il vero Fisk è ricomparso ci è sembrato di tornare a respirare dopo un periodo di apnea.

matt

È l’unico difetto vero che mi sento di trovare in una stagione che per il resto ha confermato un grande stile, un approccio pressoché perfetto, almeno un innesto gagliardissimo (Punisher), e la voglia di raccontare un eroe che sia davvero a 360 gradi. Certo, a giudicare dall’ultima scena la prospettiva concreta per la prossima stagione potrebbe essere la trasformazione di Elektra nel nuovo antagonista di Daredevil. Il che potrebbe salvarla dalla banalità, visto che i cattivi più odiosi e interessanti, nella fiction come nella vita, sono sempre gli ex amici.

Diego Castelli

:
Vai alla seconda pagina per la recensione di Francesco Martino



CORRELATI