21 Giugno 2018 8 commenti

Lost in Space: diamo la sufficienza al reboot di Netflix di Antonio Firmani

Quarant’anni dopo, una nuova famiglia Robinson si perde nello spazio

Copertina, Pilot

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Lo scorso 13 aprile su Netflix è sbarcato Lost in space, il reboot della serie cult anni ’60. A onor di cronaca questo non è il primo vero remake, registriamo l’omonimo film del ’98 diretto da Stephen Hopkins con Matt LeBlanc (all’epoca all’apice del successo planetario con Friends), e una serie TV datata 2004 che però non andò mai in onda.

Lo showrunning è affidato a Matt Sazama e Burk Sharpless e nel cast ritroviamo volti noti del piccolo schermo come Toby Sthephens (Black Sails) che interpreta John Robinson e Molly Parker (House of cards), nei panni di Maureen Robinson, personaggio chiave di questo riadattamento. Personaggio chiave perché la serie, che a cinquant’anni di distanza presenta una comprensibile opera di ammodernamento, ha nel passaggio da patriarcato a matriarcato la novità più grossa.
La serie originale, quella ideata da Irwin Allen per intenderci, andata in onda tra il ’65 e il ’68, raccontava la famiglia americana di allora, una famiglia in cui il padre era il capo e in cui Maureen, pardòn, la dottoressa Robinson, era sì una brillante biochimica, ma comunque un bel piatto di carbonara non te lo negava mai. Di lì a poco nei televisori americani sarebbe arrivato Star Trek, e l’Uomo avrebbe messo piede per la prima volta sulla Luna.

Lost in space 60's

In questi anni la società è cambiata, e con lei la famiglia americana. Ora il capofamiglia è Maureen, una capacissima scienziata che fa da traino a una famiglia non proprio convenzionale. Hanno tre figli, di cui una, afroamericana, avuta in precedenza da un partner diverso, e una relazione coniugale sull’orlo del precipizio. John è un militare, ed è stato spesso via per missioni all’estero. Nel mentre la vita di Maureen e dei bambini è andata avanti, e quando si è presentata l’occasione di imbarcarsi sulla Resolute, la nave madre che porta a una nuova galassia, verso Alpha Centauri, non c’ha pensato su due volte, costringendo di fatto John a seguirli pur di non perdere per sempre la possibilità di vedere i suoi figli. Tutti i crismi, insomma, per definire i Robinson una famiglia all’apparenza disfunzionale, che una volta “persa nello spazio”, tra mille difficoltà, saprà ritrovarsi e scoprirsi più unita che mai.

Quella del matriarcato non è l’unica novità. Il villain, il dottor Smith, agente segreto nella serie originale, imbarcatosi con i Robinson per sabotarne la missione, qui manco a dirlo è una donna, interpretata più che sufficentemente da Parker Posey, volto noto del cinema indipendente americano.
Diverse anche le motivazioni che spingono i Robinson a muovere verso altri lidi: nella serie originale c’era un problema di sovraffollamento, mentre qui la Terra è stata colpita da un asteroide che ha reso la situazione invivibile. Altra sostanziale differenza è che stavolta il robot con cui Will, il più piccolo di casa Robinson, stringe “amicizia”, non è parte del loro equipaggio, ma se lo ritrovano sul pianeta su cui sbarcano per caso. Perché sì, ovviamente il viaggio della Resolute non fila liscio, tutt’altro, e fra mille complicazioni i passeggeri sono costretti ad abbandonare la nave madre a bordo dei loro Jupiter(navicelle/scialuppe di salvataggio a tutti gli effetti).
Il rapporto fra Will e il robot intenerisce, appassiona e incuriosisce. È una delle trovate migliori ed è una dinamica che ricorda molto da vicino E.T. A dire il vero la serie è piena di richiami a Spielberg, sparsi qua e là ad arte. Resta invariato invece il tormentone della serie, quel DANGER WILL ROBINSON che il robot dice spesso e che tiene in allerta tutti, spettatori inclusi, perché sappiamo già che qualcosa di tremendo sta per arrivare.
Il problema, semmai, è che di veramente tremendo non arriva mai niente, o meglio, arriva, ma viene tutto brillantemente risolto o dall’acume di Maureen o dalla forza spropositata al servizio del bene di questa sorta di deus ex machina che è il robot (nei giorni in cui gli gira bene, perché ci sono pure giorni che gli gira male ed è meglio stargli lontano).

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Lo storytelling invece ricorda molto Lost. Pure loro sono dei naufraghi a tutti gli effetti, solo che al posto di sbarcare su un’isola deserta, sono sbarcati su un pianeta di un’altra galassia (deserto). Pure di questi naufraghi perduti nello spazio ne sappiamo man mano di più grazie ai flashback di quand’erano sulla Terra (ferma).
Il meccanismo di per sé convince, ed è sempre molto elegante. Il problema però è che quelli avevano 25 puntate per raccontarci storie, mentre qua ce ne sono a stento 10 e allora, siccome di tempo ce n’è poco, succede che i flashback non sono abbastanza per dare spessore ai personaggi: della dottoressa Smith capiamo che è truffaldina, ma lo avremmo capito comunque se non al primo, al massimo al secondo raggiro che fa; di Maureen sappiamo che sembra prepararsi a questa missione da quand’era piccola (come le dice proprio la Smith) ma questo lo capiremmo comunque al primo disastro che sventa, e così via.
Questo tipo di raccoto finisce per penalizzare in particolar modo i tre pargoli Robinson ma, se la prole risulta non avere molto spessore, almeno mamma e papà sono scritti meglio. Sia chiaro, anche loro rientrano in un minicliché, ma almeno è un cliché figlio dei tempi. John è un american hero, è un militare duro e puro che combatte per il suo Paese, e in questa prima stagione per la sua famiglia, ma nonostante questo, non è lui a portare i pantaloni in casa. I pantaloni li porta Maureen, madre sicuramente amorevole e premurosa ma con meno carbonara e più dottorati all’attivo.

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Lost in space risulta nel complesso una buona serie, strutturata piuttosto bene, piena di colpi di scena e con un lavoro di svecchiamento tutto sommato andato a buon fine. Solo che quando la serie osa e prova a uscire dall’abbraccio rassicurante che le regole di genere offrono, finisce paradossalmente per annoiare, o comunque per non decollare. In America sembrerebbe aver riscosso un discreto successo, mentre da noi l’accoglienza è stata sicuramente più tiepida. Piaccio o no, sta di fatto che una seconda stagione è già stata ordinata: DANGER sceneggiatori, osate di più, altrimenti vi molliamo.

 

Perché seguire Lost in Space: è un reboot tutto sommato riuscito, per lo meno nella sua capacità di seguire con efficacia certe regole di genere.
Perché mollare Lost in Space: non riesce ad andare oltre il compitino. Ben svolto, ma sempre compitino.

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