11 Ottobre 2018 21 commenti

Better Call Saul 4 season finale: qui non si sbaglia un colpo di Diego Castelli

La precisione, la fluidità, l’emozione

Copertina, Olimpo, On Air

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Mettiamola così: è come se Better Call Saul, in queste quattro stagioni, avesse risposto con pacata ma efficace determinazione a vari scetticismi successivi.
Ci siamo chiesti perché ci sarebbe dovuta interessare la storia delle origini di Saul Goodman, personaggio sicuramente divertente, ma non per questo meritevole di approfondimento “a prescindere”. Eppure è bastato poco per renderci conto istintivamente che ci interessava eccome.
Poi ci siamo accorti che la storia di Jimmy McGill assomigliava, almeno per sommi capi, a quella di Walter White, perché entrambe erano in qualche modo legate al concetto di diventare cattivi, “breaking bad”. E quindi ci siamo chiesti se questa strada potesse effettivamente portare a dei risultati originali, e non fosse una semplice copia. Ancora una volta, è bastato poco per rendersi conto che sì, i risultati ci sono eccome.
Poi di nuovo, con la puzza sotto al naso, ci siamo chiesti se la morte di Chuck non fosse “troppo”, se la serie sarebbe sopravvissuta alla scomparsa di un conflitto così importante. E per tutta risposta Better Call Saul è sopravvissuta e ci ha regalato una quarta stagione di primissimo livello.

Insomma, forse è il caso che sto scetticismo lo mettiamo definitivamente da parte, perché dopo quattro anni Better Call Saul non ha veramente più niente da dimostrare: è una serie della madonna, e prima lo si accetta e meglio è.

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La quarta stagione, come detto, seguiva la scomparsa di Chuck, con un Jimmy obbligato ad attendere un verdetto circa il suo reinserimento nel magico mondo degli avvocati, e poi a “vendicarsi” di quello stesso verdetto, in prima battuta negativo.
La storia sua, e quella parallela dedicata alla premiata ditta Mike/Fring, ha portato avanti una trama che abbiamo sempre conosciuto per sommi capi, perché sapevamo dove avrebbe portato, ma è riuscita a regalarci sfaccettature e sorprese rivelatesi il vero sugo di tutta l’operazione.
Senza fare un recap dell’intera la stagione, che non ne ho voglia e tanto ne abbiamo parlato quasi ogni settimana nei serial moments, mi interessa concentrarmi su due scene del finale, due momenti di chiusura e ripartenza, che ci avvicinano come mai prima ai personaggi che conoscevamo in Breaking Bad, e di cui siamo venuti a scoprire la “giovinezza”.

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Partiamo da Mike. Il nostro burbero sicario deve gestire la fuga di Ziegler, che non ce la faceva più a stare senza vedere la moglie, ed è fuggito dai lavori di scavo con l’obiettivo di incontrarla, stare con lei un paio di giorni, e poi tornare indietro. La cosa naturalmente non sta bene a Mike e soprattutto a Fring, che manda il suo braccio destro a cercare Ziegler e, una volta trovato, ne ordina l’eliminazione.
In questa dinamica c’è un riassunto esemplare dei due personaggi. In Breaking Bad erano entrambi “cattivi”, ma è in Fring che abbiamo sempre riconosciuto la malvagità da fumetto, un’oscurità tanto più gelida quanto silenziosa e perfino cordiale. Mike invece, che non è mai stato uno “simpatico”, si portava dietro un’aura da anzianotto stanco per il quale si poteva provare un po’ di simpatia. Allo stesso modo, in questo finale è Mike a portare un certo rispetto per Ziegler, ad avere a cuore, per quanto possibile, i suoi sentimenti. Si prende in carico di finirlo di suo pugno, e si assicura, nonostante le circostanze, che la sua sia una morte serena, per quanto inevitabile. Il momento in cui Ziegler chiama la moglie, prendendola a male parole per costringerla a tornare a casa, è da groppo in gola, eppure non riusciamo a odiare Mike per il fatto che non lascia al tedesco una possibilità di fuga. In qualche modo, Mike si porta dentro una malinconia e un dolore che lo fa diventare parzialmente vittima, oltre che naturalmente complice, della spietatezza di Fring, una spirale da cui, una volta entrati, è impossibile uscire.

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E se in questa scena si delinea con maggior precisione un rapporto cardine della mitologia di Breaking Bad, lo stesso si può dire delle avventure finali di Jimmy. Il nostro si è appellato contro la decisione di negargli il ritorno fra gli avvocati, e con Kim ha escogitato diversi trucchi “politici” per rientrare nelle grazie della commissione. Ma il vero momento di svolta arriva quando, di fronte a chi dovrà giudicarlo, Jimmy, mette da parte la lettere di Chuck che aveva preparato e parla a cuore aperto del suo rapporto col fratello, e della volontà, da parte sua, di fare quanto possibile per essere degno della sua eredità spirituale. Un discorso sentito e commovente, che fa scendere più di una lacrima fra i presenti.
Peccato che sia un discorso finto. Appena usciti, un trionfante Jimmy confessa a Kim che era tutta una messinscena, una recitazione a braccio in cui non credeva minimamente, ma che ha portato i risultati sperati. In quel momento l’espressione di Kim dice tutto: ha seguito Jimmy per mesi e ha partecipato alle sue piccole truffe, perché credeva di avere una posizione privilegiata rispetto agli altri, vedeva le truffe ma vedeva anche il “vero Jimmy”, che da quelle truffe avrebbe ricavato un vantaggio che comunque meritava. Questa volta, invece, è stata buggerata anche lei, è rimasta vittima dello stesso inganno in cui sono incorsi tutti gli altri, e quindi qualcosa, nel rapporto fra lei e il McGill, si è definitivamente guastato. È la distinzione, sottile ma decisiva, fra recitazione come forma di sopravvivenza in un mondo ostile, e recitazione come unica dimensione per un’anima incapace di sincerità.
Non è un caso, naturalmente, se subito dopo Jimmy annuncia alla funzionaria del tribunale che non eserciterà la professione sotto il suo vero nome, ma con un nome nuovo, che altri non è che Saul Goodman (lui in realtà in quel momento di “it’s all good, man”, ma è esplicitamente la stessa cosa). Quello a cui abbiamo assistito, quindi, è l’attimo che attendevamo da anni, il definitivo passaggio dall’avvocato Jimmy McGill, che non esiste più, all’avvocato Saul Goodman. Un passaggio molte volte suggerito, ma questa volta certificato.

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In questo contesto manca anche un’ulteriore tassello: qualche ora prima dell’ultima recita, Jimmy assiste impotente al rifiuto subito da una ragazzina, che non riceve una borsa di studio perché “sporcata” da precedenti di taccheggio. All’uscita dall’edificio Jimmy insegue la ragazzina, che palesemente gli ricorda se stesso, e le dice di fregarsene di quello che pensa la gente, e di fare tutto ciò che può per farcela lo stesso, no matter what. Un discorso accorato che la giovane coglie un po’ spaurita, e dopo il quale Jimmy va in un parcheggio sotterraneo a recuperare la macchina, scoppiando a piangere quando non parte.
Se il finale dell’episodio rappresenta la nascita di Saul Goodman, quel pianto disperato, come mai l’avevamo visto prima, rappresenta la morte di Jimmy. Di fronte all’ennesima sconfitta, quella di una bambina che come lui non avrà alcuna possibilità finché sarà se stessa, Jimmy sceglie di attraversare una metamorfosi: Jimmy McGill non ha speranze di riuscire, mentre Saul Goodman, che parte da zero, può farcela. In questo senso, quello che lì per lì sembra semplicemente un pianto di frustrazione, magari legato alla memoria del fratello, retrospettivamente si rivela come l’ultimo saluto a un’identità che sta per scomparire.

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L’impressione, ancora una volta, è che Vince Gilligan e i suoi siano riusciti a fare tantissimo, usando relativamente poco. Sentimenti riconoscibili e molto umani, una precisa e quasi spontanea fluidità del racconto, una pacatezza (nella messa in scena, nella recitazione, nel montaggio) che lascia comunque passare la forza di cambiamenti epocali, come se le vere trasformazioni, quelle dirompenti, non avessero bisogno dei fuochi d’artificio per essere riconosciute.

Ora vedremo cosa succederà. Anche Better Call Saul risponde a logiche prettamente televisive che impongono certi corsi e ricorsi. Non mi aspetto quindi che nella prossima stagione sia tutto diverso, o che nessuno chiamerà più il protagonista “Jimmy”. In compenso, però, alcuni passi decisivi sono stati compiuti, e ora la strada è in discesa. Nel senso quasi letterale di “discesa agli inferi”, una spirale che probabilmente vedrà in Kim la sua prossima vittima. Ecco, speriamo che in questo caso il termine “vittima” possa essere metaforico, perché sennò mi prendo male.



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