3 Gennaio 2019 2 commenti

Black Mirror Bandersnatch: le cose buone di un episodio non rivoluzionario di Diego Castelli

Fra chi grida alla rivoluzione e chi alla boiata, cerchiamo la verità nel mezzo

Copertina, Olimpo, On Air

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Non avevo nemmeno troppa voglia di scrivere di “Bandersnatch”, l’ultimo episodio di Black Mirror. Oddio, la verità è che in questi giorni di feste non avevo voglia di fare altro che non fosse fissare il muro e urlare ai gatti di non grattare il divano.
Comunque, sarà che un sacco di gente aveva molto tempo libero, fatto sta che di “Bandersnatch” han parlato tutti, metà gridando alla rivoluzione e l’altra metà, per contestare i primi, denunciando la cagata galattica.
E ora indovinate cosa fa il vostro amichevole Castelli di quartiere? Bravi, viene qui a mediare e a dirvi che a Natale dovremmo essere tutti più buoni, ma pure un tantino più sobri, ché ormai viviamo in una società dell’urlo a tutti i costi, e finisce che non si capisce più niente.

Cominciamo col dire che effettivamente no, “Bandersnatch” non è una rivoluzione, per almeno due motivi.
Il primo è che le storie a bivi non sono certo una novità. L’industria dei videogiochi (che impegna milioni di persone e miliardi di dollari) è stracolma di storie a bivi ormai da trent’anni, e non si scompone nessuno. Anche sul Topolino di un quarto di secolo fa c’erano le storie a bivi. Meno usuale vederle in film e serie tv, questo sì, ma anche in questo caso non è il primo esempio, per quanto il marchio Netflix e una certa raffinatezza del meccanismo (costato due anni di lavoro) abbiano reso il tutto certamente più “visibile” rispetto ad altri esperimenti più circoscritti.
Il secondo motivo per cui non è una rivoluzione è che se usiamo quel termine, “rivoluzione”, non possiamo che intendere un processo repentino che butta a mare quasi tutto ciò che c’era prima, trasformandolo in vecchio e obsoleto, per sostituirlo con qualcosa di nuovo e mai visto. Ecco, io credo si possa stare sicuri che le normali narrazioni lineari non spariranno tanto presto dai nostri piccoli e grandi schermi, e che esperimenti come “Bandersnatch” rimarranno appunto questo, piccole isole di sperimentazione di cui sicuramente vedremo nuovi esempi, magari anche migliori o più articolati, ma che di certo non soppianteranno le forme base della narrazione, che sono le stesse da migliaia di anni.
Questo vale soprattutto per la serialità: costruire un film dai finali multipli è una cosa, ben altra sarebbe produrre una serie, sviluppata su più episodi e più stagioni, in cui agli utenti venisse lasciato il compito di scegliere fra molte direzioni divergenti della trama: significherebbe di fatto girare varie serie diverse, continuamente incastrate. Un macello produttivo semplicemente impensabile, per lo meno su larga scala.

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Se però “Bandersnatch” non rappresenta una “rivoluzione”, questo non significa che sia un episodio immeritevole. Reagire a un entusiasmo che riteniamo eccessivo con un discredito altrettatto eccessivo finisce solo col sommare esagerazione a esagerazione, senza rendere alcuna giustizia al prodotto.
Perché “Bandersnatch” è tutt’altro che un brutto film (meglio chiamarlo così, forse…). In primo luogo per la raffinatezza della messa in scena, della costruzione filmica e anche della pulizia tecnologica: Netflix ha costruito un meccanismo semplice nella pratica ma assai complesso nella realizzazione, e ha fatto in modo che, nel nostro cliccare le varie alternative offerte da Charlie Brooker, non avessimo mai l’impressione di essere di fronte a qualcosa di difficile o inaccessibile (ma provate a scaricare “Bandersnatch”, o vederlo in uno streaming che non sia di Netflix, e già avrete ben chiara almeno una delle possibile conseguenze di questo formato: o Netflix o niente, caro il mio pirata).
A questo, poi, bisogna aggiungere il gusto per il dettaglio che fa sempre felice la fetta di fan più puntigliosa (vedere i siti collegati, i finali nascosti e quant’altro), e soprattutto la nostalgia anni Ottanta in cui siamo tuttora inseriti, nonostante ormai qualche anno di sfruttamento (da Ready Player One a Stranger Things, passando per The Goldbergs).

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Il vero valore di “Bandersnatch”, però, non sta solo nella perizia tecnica con cui è realizzato, ma anche nel modo in cui affronta e tematizza la storia a bivi, facendole compiere almeno due passi successivi al primo.
Il primo passo di una storia a bivi sono, beh, i bivi. L’idea cioè di presentare un racconto che abbia diverse versioni, ognuna scelta in modo più o meno consapevole dallo spettatore. Qui stiamo parlando di meccanismo, di strumento, che può essere applicato a qualunque vicenda (in fondo ogni sceneggiatore affronta quotidianamente una storia a bivi nella sua testa, presentando poi allo spettatore i risultati delle sue scelte).
“Bandesnatch” però fa un passo successivo. Invece di limitarsi a usare uno strumento, ci ragiona su. Ecco allora che l’episodio è sì una storia a bivi, ma anche una storia che parla di bivi. Partendo dall’elemento tecnologico, dai videogiochi e dalla programmazione, Charlie Brooker affronta uno dei temi classici della fantascienza, le dimensioni parallele, permettendo allo spettatore di vivere in prima persona, anzi di influenzare, la generazione successiva di dimensioni diverse. Lo scenario è un po’ quello di Fringe, o di Counterpart, con la differenza che allo spettatore, che sta seguendo proprio un racconto sulle dimensioni parallele, viene dato il teorico potere di “generare” quelle dimensioni (per quanto naturalmente non sia una generazione effettiva, ma solo una scelta fra versioni preconfenzionate).

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E qui arriva il terzo passo. Normalmente le storie a bivi consentono allo spettatore (o lettore, o videogiocatore) di assumere un ruolo diverso da quello del fruitore passivo, permettendogli di diventare in parte sceneggiatore, e in parte protagonista della storia. “Bandersnatch” riesce ad aggiungere anche nuovi ruoli a questo quadro: quando Stefan riesce a rendersi conto di essere in qualche modo “manovrato” da una forza esterna, prova ad appellarcisi direttamente, e Netflix ci offre la possibilità di rispondere alle domande del protagonista. In questo modo, lo spettatore viene trasformato in un ulteriore personaggio, o se volete in una sorta di divinità, di spirito mistico, e ricava la piacevole vertigine del passare dalla cabina di regia, alla narrazione vera e propria, in uno scambio di ruoli continuo e sorprendente (fra cui quello della stessa Netflix, che appare come una delle opzioni alla domanda “chi sei?” posta da Stefan).

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Il valore artistico di “Bandersnatch” non sta dunque tanto nel potere che dà allo spettatore, quanto nel cercare di percorrere qualche metro aggiuntivo nella riflessione sulle differenti “parti” che normalmente le persone sono invitate a ricoprire al momento di fruire un’opera di finzione. Un continuo cambiare di casacca che mette in discussione la classica dicotomia fra autore e spettatore, in un modo che non toglie potere all’autore ufficiale (inventore di tutte le dimensioni possibili) ma consegna comunque consapevolezza metatestuale allo spettatore.
Qui troviamo anche la coerenza con il marchio “Black Mirror”. Da un certo punto di vista, “Bandersnatch” potrebbe sembrare un episodio un po’ spurio, molto interessato al funzionamento del suo meccanismo interno, ma meno attento di altre volte all’inquietudine tipica della creatura di Charlie Brooker.

Per dirla più semplice, i migliori episodi di Black Mirror sono quelli che, alla fine, ti lasciano col timore superstizioso per una tecnologia pervasiva che può sempre avere pro e conto. “Bandersnatch” non sembra lasciare quel tipo di inquietudine, fosse anche solo perché, più che il futuro, racconta il passato. In realtà, però, anche il messaggio è “meta”: la difficoltà nell’orientarsi nel labirinto di “Bandersnatch”, unita alla frustrazione di molti dei finali (tragici o distopici) sembra gettare un’ombra di acuta consapevolezza su tutta l’operazione. Costruendo una complicata storia a bivi, Brooker sembra suggerirci proprio la pericolosità e potenziale confusione delle storie a bivi, mettendoci in guardia dal facile entusiasmo con cui potremmo considerare rivoluzionario uno strumento che, se abusato, potrebbe creare delle storture o, semplicemente, impedirci di sviluppare una narrazione collettiva fondata su basi condivise.

Se normalmente Black Mirror ci spaventa col futuro della tecnologia, questa volta ci ha spaventato col (possibile) futuro della serialità. Tutto sommato, mica male.



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