21 Giugno 2023

Black Mirror stagione 6: tutto tranne Black Mirror di Diego Castelli

La sesta stagione di Black Mirror offre diversi spunti interessanti, ma quasi tutti lontanissimi dall’anima originale della serie

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QUALCHE SPOILER SULLA SESTA STAGIONE DI BLACK MIRROR, IN PARTICOLARE IL PRIMO EPISODIO

Se seguite Serial Minds da qualche tempo, già sapete che ci capita spesso di parlare di aspettative. Quello che si pensa di vedere in una serie, prima ancora di aver cominciato il pilot, ha spesso un’influenza significativa su ciò che penseremo di quella serie dopo averlo visto.
A volte l’aspettativa riguarda la qualità (a volte aspettarsi poco da una serie ci aiuta ad apprezzarla, e viceversa), altre volte ha a che fare con il contenuto specifico.

Come sapete, io sono uno che dà sempre un certo peso a ciò che una serie promette esplicitamente – con i suoi trailer, la sua comunicazione, e infine ovviamente con la sua messa in scena – nella convinzione che se fai quello che prometti, anche se è poco, non ti si può insultare impunemente.

Prima o poi doveva arrivare qualcuno a scombinare anche questa semplice e pacifica convinzione, e forse non è un caso che a farlo sia una delle serie più di rottura dell’ultimo decennio, ovvero Black Mirror.

Dare un giudizio definitivo della sesta stagione di Black Mirror, recentemente arrivata su Netflix a distanza di quattro anni dalla quinta, è complicato.
Se lo volessimo riassumere, finiremmo in una specie di paradosso: la sesta stagione di Black Mirror è molto bella. Solo che non c’entra quasi niente con Black Mirror. E quindi è deludente. Però era anche bella. Ma le aspettative sono disattese.
E via così fino a trovarsi in un angolo di casa a dondolare abbracciati alle ginocchia.

Questo accade perché Black Mirror, al netto di un giudizio complessivamente calante nel corso delle cinque stagioni (complice un passaggio su Netflix che molti hanno vissuto come edulcorante rispetto agli esordi birichini di Channel 4) setta due diversi ordini di aspettative, non necessariamente correlati fra loro.
Da una parte, ci sono le aspettative sulla qualità: quando guardiamo Black Mirror ci aspettiamo sceneggiature originali, idee stranianti, cibo per il cervello, ma dal sapore stravagante e in una confezione impeccabile.
Dall’altra parte, abbiamo anche precise aspettative sul contenuto, perché Black Mirror nasce come sguardo curioso e scaltro, ma anche cinico e pessimista, sul nostro presente tecnologico, sul rapporto spesso malato con i device a cui affidiamo le nostre intere vite, sovente con l’idea di immaginare futuri distopici che esasperino questa o quella caratteristica del nostro quotidiano vivere con la tecnologia (e parliamo soprattutto di tecnologie di comunicazione). Il tutto con l’idea di usare l’iperbole per comprendere meglio (estremizzandoli) opportunità e limiti di quelle tecnologie.

Ebbene, la sesta stagione di Black Mirror risponde piuttosto bene al primo gruppo di aspettative, tradendo però quasi completamente (e sorprendentemente) il secondo gruppo.

Per scelta editoriale, non faremo qui una mini-recensione di ogni singolo episodio, perché abbiamo deciso di farla a voce (e in due) sulla versione in abbonamento del nostro podcast, Salta Intro+, che trovate su Spotify e su Patreon. Ne stiamo parlando con cadenza di un episodio a settimana.

Questo però non ci impedisce di esprimere con facilità il nostro sconcerto.
Dei cinque episodi di questa stagione, solo il primo, “Joan is Awful”, è pienamente un episodio di Black Mirror. Partendo dalla costante sorveglianza sulle nostre vite che abbiamo concesso a cellulari e computer di varia forma e funzione (quella cosa simpaticissima e per nulla inquietante per cui se esprimi ad alta voce il desiderio di comprare un paio di scarpe, nel giro di poco vedrai un sacco di pubblicità di scarpe mentre navighi in rete), “Joan is Awful” costruisce la storia di una donna, interpretata Annie Murphy, che a un certo punto vede la sua intera vita raccontata in una serie di Streamberry (la parodia di Netflix secondo Black Mirror), con protagonista Salma Hayek.

“Joan is Awful” funziona – e funziona alla Black Mirror – nella misura in cui porta all’estremo il concetto di contenuto personalizzato, collegandolo all’affidamento cieco e ingenuo nei confronti della tecnologia, per arrivare a una distopia dove non solo la nostra privacy è completamente svanita, ma la nostra intera esistenza diventa materiale per la costruzione di intrattenimento, senza che noi si possa dire niente al riguardo.
L’avvitamento multiplo tale per cui alla fine anche la protagonista che abbiamo seguito fino a quel momento si scopre essere una versione fittizia di una persona vera al di fuori della piattaforma (d’altronde, Annie Murphy è famosa!) è l’ulteriore tocco di classe di un episodio quasi del tutto riuscito.

Dico “quasi” perché proprio nel finale di quella puntata c’è una scelta che fa storcere il naso, e forse ci mette sul chi vive per il prosieguo della serie. Charlie Brooker, infatti, decide di terminare l’episodio con una morale abbastanza semplice e scontata, con la protagonista che sostanzialmente si stacca dalla tecnologia cattiva per tornare a fare la barista e viversi l’aria pura senza bisogno di troppe complicazioni.
Un finale zuccheroso e poco interessante, per una serie che solitamente ti rimaneva nel cervello proprio perché non forniva soluzioni, visto che dalla tecnologia è sempre più difficile scappare.

Quando arrivano gli altri episodi, poi, la vera sorpresa.
“Loch Henry” è un thriller-crime in cui un tizio si trova invischiato in una storiaccia criminale che riguarda la sua famiglia mentre fa un documentario. Di Black Mirror c’è poco o niente, a meno di volerci vedere qualche critica alla frenesia da documentario e da spettacolarizzazione di qualunque storia atroce, ma direi che è un concetto per il quale non ci serviva Black Mirror.
“Beyond The Sea”, con Aaron Paul e Josh Hartnett, è un racconto di fantascienza torbida e malata con protagonisti due astronauti che, durante un lungo viaggio spaziale, possono comunque vivere sulla Terra attraverso delle versioni robot di se stessi. Fantascienza limpida ma, di nuovo, poco Black Mirror.
“Mazey Day” è un horror puro, con tanto di mostrone, con protagonista un gruppo di paparazzi. E i paparazzi, che usano normali macchine fotografiche, non mi sembrano materia da Black Mirror.
In ultimo, “Demon 79” è un fantasy-horror a sfondo demoniaco che, ormai avete capito, praticamente non parla nemmeno di tecnologia. Non c’è alcuno “schermo nero”.

Se la guardiamo dal punto di vista di cosa Black Mirror significa nella serialità contemporanea, e di cosa quindi è lecito aspettarsi in termini di temi trattati e riflessioni filosofiche e politiche, non c’è grande sorpresa nel fatto che tanta gente si sia sentita tradita dalla sesta stagione di Black Mirror.

Semplicemente perché il fantasy, l’horror, il thriller esistono già, come esistono anche altre serie antologiche, e a Black Mirror non si chiede di essere semplicemente un’altra serie antologica, bensì di… essere Black Mirror.
Altrimenti è come andare dal macellaio, chiedere una bistecca, e vedersi consegnare una ratatouille. Oh, niente contro la ratatouille, però io ti ho chiesto un manzo, perché fuori c’è scritto che vendi il manzo, e poi tu mi dai le zucchine.

Il problema è stato così immediato e vistoso, che viene proprio da chiedersi cosa diavolo sia passato per la testa di Charlie Brooker, che pure con il primo episodio è riuscito a rimanere dentro al suo brand.
Che abbia finito le idee? E dire che innovazioni come ChatGPT e parenti dovrebbero far esplodere una testa come la sua. Che si sia stufato? Però se ti sei stufato, crea un’altra serie e non chiamarla Black Mirror. Te la guardiamo lo stesso, promesso.

Detto tutto questo, rimane l’ultima domanda. Ok, è tutto fuori fuoco e ci sentiamo traditi, ma almeno sti episodi funzionano?
Ecco, giusto per scombinarci i pensieri non possiamo che dire che sì, gli episodi funzionano eccome.

Funzionano per le idee che hanno (“Demon 79”, “Beyond The Sea”), funzionano per i twist completamente inaspettati (“Mazey Day”), funzionano per l’effettiva capacità di prenderti lo stomaco e ribaltarlo (“Loch Henry”).
In generale, poi, c’è una messa in scena sempre efficace pur senza essere rivoluzionaria, e il montaggio dell’escalation di frustrazione in “Beyond The Sea”, o delle scene più violente di “Mazey Day”, restituiscono effettivamente un intrattenimento forte, corposo, originale.

Il paradosso è che la sesta stagione di Black Mirror potrebbe averci consegnato alcuni fra i migliori episodi stand-alone della recente serialità fantasy, con il madornale errore di averli messi nella cornice e nel contesto sbagliato.

Non è per me possibile sostenere che siano episodi brutti, o immeritevoli di visione, perché mentirei. Ma se tante volte ho elogiato le serie capaci di mantenere le proprie promesse, pur senza essere capolavori, ora non posso esimermi dal constatare l’inspiegabile tradimento compiuto nei confronti della tradizione di Black Mirror, e chiedere al suo creatore: oh Charlie, ma tutto bene?



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