25 Marzo 2020

The Mandalorian, Disney+, il virus e il tempismo di Diego Castelli

O di come l’arrivo di una piattaforma piena quasi solo di roba già vista fosse l’unica cosa che ci servisse in questo momento

On Air

Quando andammo in Olanda per vedere e recensire il pilot di The Mandalorian, non ancora arrivato nel nostro paese (l’articolo lo trovate qui), progettavamo di scriverne di nuovo a stagione completata e interamente disponibile su una Disney+ finalmente giunta anche in Italia. E di certo potevamo immaginare che l’arrivo della piattaforma della casa di Topolino avrebbe solleticato curiosità e suscitato entusiasmi.
Quello che però non avremmo mai potuto prevedere, è che questa nuova finestra su un altro universo cine-seriale si sarebbe aperta da un mondo che, nel giro di un mese, si è completamente ribaltato. In questo momento, la recensione di The Mandalorian ci sembra vecchia non di mesi, ma di anni, risalente a un tempo in cui ancora non dovevamo avere paura di avere persone più vicine di un metro e mezzo.

Della prima stagione di The Mandalorian, probabilmente il contenuto più importante e pubblicizzato della neonata piattaforma, (ri)parleremo tra poco. Prima però bisogna riconoscere e registrare un fenomeno emotivo tutto particolare, che si è creato intorno all’arrivo di Disney+ e che probabilmente si sarebbe verificato comunque, ma che è stato esponenzialmente amplificato dalla situazione difficile che stiamo vivendo.
Che il paese si trovi in una crisi imprevista e dolorosa non è, purtroppo, una novità di questa mattina. È una crisi ovviamente sanitaria, con molte persone colpite dal femigerato coronavirus (peggiore di qualunque cattivo disneyano perché privo di volto e personalità). È una crisi certamente economica, la cui reale gravità potrà essere valutata solo a posteriori. Ma è anche una crisi in termini di percezione del mondo.
Gli esseri umani, si sa, amano dare senso alle cose, trovare un ordine nell’apparente caos dell’universo e delle loro vite. E desiderano così tanto questo senso, da usare tutti gli strumenti che hanno per trovarlo o, se necessario, per crearlo, che sia scoprendo le leggi matematiche che governano la fisica, oppure inventando divinità che consentano di spiegare tutto ciò che non capiamo e che ci fa male, oppure ancora riordinando gli armadietti della cucina affinché la perfetta disposizione a scalare delle spezie ci permetta di non pensare a quella brutta litigata che abbiamo fatto in ufficio.

Ora, con il virus, un sacco di cose che facevano parte di quel famoso ordine sono venute a mancare. Non necessariamente grandi cose, e non solo per chi purtroppo si è ammalato o conosce persone ammalate: una certa routine nel fare la spesa, le cene fuori con gli amici, la palestra, le gite fuori porta. E questo senza contare chi rischia di perdere il lavoro, o non può raggiungere i propri cari rimasti lontano.
Sono state limitazioni improvvise e in vario modo dolorose, che ci stanno facendo riflettere su un sacco di cose che normalmente davamo per scontate. E per quanto sappiamo (o dovremmo sapere) che nel mondo c’è gente che sta assai peggio di noi, da assai prima del virus (chiedetelo a chi vive sotto le bombe se non vorrebbe farsi due mesi in silenzio, in una casa calda e comoda, pieni di cibo e internet), non c’è nulla di male ad ammettere che si tratta di sconvolgimenti che possono lasciare confusi e, in una parola, spaesati.

Ed è qui che arriva Disney+.
Ora, io non voglio né essere troppo cinico, né immaginare nulla di ciò che accade dietro le quinte in termini di giudizio sulla performance. Ma non si può negare che, da un punto di vista strettamente commerciale, per la piattaforma non poteva esserci un momento migliore per arrivare in Italia.
Se prima si criticava il fatto che Disney+ arrivasse mesi dopo l’uscita americana, ora invece l’arrivo di Disney+ appare ammantato di un tempismo quasi mistico.
Quello che poteva essere non dico un lancio in sordina, ma comunque un debutto macchiato da una library in grandissima parte “già vista”, e con la serie di punta già divorata in Olanda da un sacco di gente, si è invece tramutato in una specie di scialuppa di salvataggio.
In primo luogo per molte famiglie con figli piccoli, che probabilmente stanno dando di matto per il fatto di non poter giocare fuori e vedere i loro amici (lo dico per sentito dire, il Diego Castelli di 8 anni avrebbe ADORATO la quarantena), e ora hanno una nuova caterva di contenuti da sparare negli occhi dei piccoli invasati per ipnotizzarli per i prossimi due mesi.
Ma in secondo luogo anche per tutti gli altri. E per comprenderne il motivo non serve sentire il parere di luminari della psicologia: in un momento di crisi, di profonde incertezze, e perfino di paura, l’arrivo di una montagna di storie radicate nella nostra infanzia non può che essere il modo perfetto per fuggire, almeno un po’, dai casini del presente.
L’unica cosa che in questo momento un sacco di gente vuole, anche e soprattutto quando legge gli articoli che recitano “le cose non saranno più le stesse”, è tornare esattamente a ciò che c’era prima, e più si va indietro, più ci si aggrappa al tempo spensierato in cui potevamo andare al cinema a vedere La Sirenetta o Il Libro della Giungla, e più l’incantesimo funziona, più possiamo “staccare” almeno per qualche ora, in attesa del nuovo bollettino medico, dei nuovi decreti, e delle nuove, fottutissime , versioni del modulo per l’autocertificazione che mannaggia a Jafar cambia ogni 6 ore.

Di questo tempismo perfetto, talmente perfetto che non mi spiego come mai non ci sia qualche matto complottista che ipotizza la nascita del virus in qualche studio da alchimista situato a Disneyworld, fa parte anche The Mandalorian, che di per sé aveva mostrato tempismo anche all’uscita.

QUI SI SPOILERA EH, SU TUTTA LA STAGIONE

All’epoca non c’entrava niente il virus, quanto piuttosto la capacità di raccontare un certo tipo di Star Wars, quando la versione cinematografica di quell’universo stava attraversando un momento di profonda difficoltà. E qui non si tratta di dare un giudizio sull’ultima trilogia cinematografica (che a me è piaciuta un botto), si tratta di riconoscere che gli ultimi film si son presi un sacco di fischi, e The Mandalorian no. Perché?
Beh, perché The Mandalorian non ha provato a innovare niente, e Jon Favreau l’ha fatto probabilmente sapendo che quello non era il momento dell’innovazione, quanto piuttosto quello del ritorno alla tradizione. The Mandalorian è profondamente Star Wars, lo è visivamente, lo è nel tono, lo è nella narrazione (che si incastra placidamente nel canone della saga senza disturbare nessuno), lo è più in generale nella volontà di creare una storia “classica”, anche dal punto di vista della struttura: episodi in buona parte autoconclusivi, attraversati da alcune semplici linee orizzontali, fra cui la più importante quella legata – stavolta sì – alla grande novità che è Baby Yoda o, come sarebbe giusto chiamarlo, il Bambino (The Child).

E ancora una volta dobbiamo parlare di tempismo: cosa c’è di meglio, in questi tempi bui, del faccino rassicurante, tenero, buffissimo di un piccolo Yoda, la cui esistenza non cozza con alcuna Verità (con la v maiuscola) del canone cinematografico, e solleva una buona quantità di domande interessanti, tutte rimandate alla seconda stagione, perché non bisogna neanche esagerare, non è Westworld.

Quando recensimmo il pilot di The Mandalorian, notammo subito la pulizia della costruzione, la ricchezza della messa in scena, e la volontà di non strafare: offrire al pubblico una storia semplice, divertente, frizzante, che puntasse al cuore dei fan di Star Wars facendoli sentire a casa. E se è vero che in questo periodo ci sentiamo pure un po’ troppo “a casa”, qui stiamo parlando di una dimora dei ricordi e, ancora una volta, di un tempo antico e migliore dove non c’era nessun microorganismo che non si potesse ammazzare con un colpo di blaster o un bel fendente di spada laser.
Ed è stato così per l’intera stagione: non tutti gli episodi sono stati eccezionali, qualcuno si è limitato al compitino. Ma ci sono anche stati momenti di alta classe: l’incontro con un AT-ST trasformato in una specie di mostro mitologico (quarto episodio, quello dell’arrivo di Cara); l’ottima puntata sulla nave prigione, un manuale di action-fantasy; l’inaspettata morte del povero Kuill nel settimo episodio; e poi un episodio finale non riuscitissimo in termini di sviluppo (troppo lungo e forzato l’assedio ai protagonisti), ma in cui finalmente si vede il volto sotto il casco del Mandaloriano. E ovviamente, tornando all’inizio, la prima comparsa del Child, le cui tenere interazioni col protagonista sono state lo zucchero delizioso di tutta la stagione.

Otto puntate pulite, nette, precise, piene di cuore ma senza fronzoli inutili. Dovevano essere l’ariete di sfondamento della piattaforma, ma questa funzione è stata persa per via del ritardo nell’arrivo del nostro paese. Quello che rimane, però, è il senso di un’offerta disneyana che vuole rimanere fedele a un’idea di intrattenimento lineare ed efficace anche quando, come nel caso di The Mandalorian, si rivolge a un pubblico non solo di bambini e ragazzi.
Chissà, magari in altre condizioni avremmo criticato le non troppe novità del lancio, e il fatto che dopo l’entusiasmo iniziale ci sono soprattutto vecchi film e vecchie serie.
Ora, invece, l’unica cosa che vogliamo è un po’ di nostalgia, storie belle, e poter mettere il faccino di Baby Yoda su un profilo di Disney+.
A loro è andata bene. A noi, nella sfiga, pure.



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