1 Giugno 2021

The Kominsky Method stagione finale – La giusta chiusura di una piccola chicca di Diego Castelli

La serie con Michael Douglas “approfitta” dell’uscita di scena del co-protagonista per trovare nuove storie e un’ottima chiusura

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ATTENZIONE: QUALCHE SPOILER SULLA TERZA E ULTIMA STAGIONE

Al termine della seconda stagione di The Kominsky Method – la comedy di Netflix creata da Chuck Lorre in cui Michael Douglas interpreta un insegnante di recitazione fra problemi del presente, rimpianti del passato, e deliziose amicizie senili – il legame fra il protagonista Sandy e il suo agente Norman era più saldo che mai, e rappresentava ancora il cuore pulsante dello show.
Questo perché ancora non si sapeva, o almeno non si sapeva con certezza assoluta, che l’ottantasettenne Alan Arkin aveva deciso di lasciare il ruolo di Norman per non meglio specificate motivazioni (che magari erano semplicemente un più che legittimo “sono vecchissimo e mi sono rotto”).
Quando succedono queste cose, ci sono solo tre strade: eliminare il personaggio parlando il meno possibile della sua uscita di scena; mantenerlo, ma cambiando interprete; inserire la scomparsa del personaggio nella storia e vedere concretamente cosa succede.
Chuck Lorre (che firma tutti gli episodi della terza e ultima stagione) ha scelto per l’ultima opzione, la più difficile, e a conti fatti è stata la decisione giusta.

Va pure detto che forse era inevitabile: troppo importante il personaggio di Norman per fare finta di niente, e troppo riconoscibile Alan Arkin per sostituirlo come se niente fosse.
Fatto sta che la terza stagione di The Kominsky Method si apre proprio con il funerale di Norman, una scena esilarante in cui i personaggi più buffi a lui legati, soprattutto la figlia e il nipote, hanno modo di sfoggiare un po’ di sana idiozia, specie il giovane Robby (interpretato dall’ex bambino de Il Sesto Senso, Haley Joel Osment), che è un fanatico di Scientology e… beh fa già ridere così.
Soprattutto, però, c’è il dolore di Sandy, l’amico di sempre. E a questo punto è importante riconoscere che la morte di Norman non è stata trattata come un piccolo fastidio narrativo che andava ingoiato e digerito nel più breve tempo possibile. Al contrario, è diventata la scintilla con cui Sandy ha potuto iniziare un ultimo tratto del suo percorso di vita, facendo gli ultimi bilanci e, a sorpresa, trovando nuove opportunità.

Che si tratti del semplice scavo psicologico nel dolore di Sandy, della goffa baruffa intorno all’eredità di Norman (per la quale la figlia Phoebe e il nipote Robby cercando di fregare lo stesso Sandy, a cui l’amico defunto ha lasciato le redini del suo patrimonio), oppure dell’improvvisa ricchezza che investe Mindy, la figlia di Sandy a cui Norman ha lasciato dieci milioni di dollari, la figura dell’amico scomparso resta uno dei motori principali della narrazione, come se il mondo del protagonista avesse subito uno scossone così forte, che il suo semplice e necessario riassestamento è materia sufficiente per costruirci sopra un’intera stagione.
Una stagione, per inciso, che funziona alla grande: il fatto che buona parte della comicità derivi da una morte è esso stesso il simbolo di una serie apertamente geriatrica, che del danzare a un passo dall’abisso ha fatto la sua cifra stilistica per due interi anni. Tutta The Kominsky Method non è altro che un grande bilancio di una vita già passata, mescolato con l’impossibilità di riposare perché ci sono questioni attuali che restano pressanti (non ultima una certa ambizione del protagonista a combinare ancora qualcosa della sua esistenza).

Se Norman, pure nella non-essere, resta un personaggio centrale della storia, Chuck Lorre e i suoi hanno pensato che un’aggiuntina avrebbe fatto comunque bene. Ed è qui che arriva (o meglio torna in pianta stabile) Kathleen Turner, nel ruolo della madre di Mindy ed ex moglie di Sandy. Di nuovo una persona anziana, di nuovo una persona con problemi di salute, di nuovo uno spirito sarcastico per affrontare di petto i problemi della vita.
Considerando la necessità di supportare la figlia nella sua relazione con l’anziano pacioccone Martin, e la contemporanea possibilità di sotterrare qualche ascia di guerra con Sandy, il personaggio di Roz diventa immediatamente un plus, consentendo alla storia di Sandy di raggiungere nuovi gradi di completezza.
Ovviamente, poi, c’è da considerare l’elemento extra-seriale che riguarda Michael Douglas e Kathleen Turner in quanto coppia cinematografica. I due avevano recitato insieme in tre cult degli anni Ottanta – All’inseguimento della pietra verde (1984), Il gioiello del Nilo (1985) e La guerra dei Roses (1989) – e rivederli insieme, specie nella loro versione invecchiata che si è comprensibilmente allontanata dalla figura di sex symbol che erano una volta, aumenta l’effetto nostalgia e in qualche modo rende ancora più “vero” il percorso di rielaborazione del passato che è uno dei temi centrali della serie, come se conoscere effettivamente la versione giovane di questi protagonisti ci aiuti a ricollocarli meglio in un tempo remoto che ora riemerge e pretende una qualche comprensione finale.

Da questo punto di vista, la terza stagione di The Kominsky Method ci tiene anche a chiudere il cerchio. Attraverso alcune guest star di grande richiamo come Morgan Freeman e Barry Levinson, che interpretano loro stessi, a Sandy viene offerta un’ultima possibilità di fare ciò che ama, e di essere riconosciuto per la sua bravura.
Una conclusione abbastanza “facile”, che forse potrebbe apparire perfino frettolosa, ma che riesce comunque a tenere insieme tutti i pezzi del puzzle e a dargli un’armonia finale che, quando partono i titoli di coda, ci lascia pienamente soddisfatti di un percorso relativamente breve (parliamo di soli 22 episodi complessivi) ma che ci ha trasmesso belle sensazioni, grazie anche e soprattutto ad alcuni interpreti straordinari.
Ci metterei la firma per arrivare sempre così pacifici alla fine di una serie tv…



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