25 Giugno 2021

Katla – La prima, bella original islandese di Netflix di Diego Castelli

Vulcani, cenere, fantascienza, intrighi amorosi e familiari: in Katla c’è un po’ tutto, e più o meno tutto fatto bene

Pilot

Comunque la si pensi su Netflix e la sua evoluzione in questi anni (tante serie, troppe serie, troppe serie medie o mediocri rispetto al totale ecc ecc), bisogna riconoscerle un pregio indiscusso, che ha fatto da esempio anche per altre piattaforme di streaming e che devo applaudire pure io che sono un famigerato americanofilo: grazie a un’offerta completamente slegata dal concetto di palinsesto, e quindi priva di qualunque gabbia che limiti la quantità di serie rese disponibili per il pubblico, Netflix ha contribuito ad allargare di molto il nostro sguardo sulla serialità mondiale. Per dirla semplice, ha portato nelle nostre case prodotti che altrimenti difficilmente avremmo visto in tv (pensiamo all’impulso dato alla visione di serie coreane), ed è diventata essa stessa produttrice di contenuti “local” che, in alcuni casi, sono stati capaci di diventare hit globali come mai sarebbero riuscite a fare se non avessero potuto contare su una distribuzione immediata e capillare (due esempi su tutti, La Casa di Carta e Dark).
Ovvio che anche le piattaforme di streaming operano un processo di selezione, non è che improvvisamente possiamo pensare di vedere qualunque cosa proveniente da qualunque paese, ma certamente negli ultimi dieci anni abbiamo avuto a disposizione un’offerta seriale mai così ampia e comoda.
Ed è per questo bel processo internazionale che oggi possiamo parlare con un certo gusto di una serie islandese, interpretata da attori e attrici molto noti in patria, ma che noi non avremmo mai conosciuto in altro modo.
Oggi parliamo di Katla.

Creata e diretta da Baltasar Kormákur e co-scritta in compagnia di Sigurjón Kjartansson (diciamo fin da ora che non c’è un solo islandese che non abbia un nome degno di un fantasy, a volte perfino scritto in quello che sembra elfico), la prima stagione di Katla è arrivata su Netflix lo scorso 17 giugno, e racconta di un vulcano e di un po’ di cose parecchio strane che succedono intorno ad esso.
Il Katla è un vulcano realmente esistente, che da un millennio abbondante erutta a intervalli abbastanza regolari (l’ultima volta nel 1918, e infatti gli islandesi sono lì che fremono), e Katla, la serie, è ambientata proprio un anno dopo l’inizio di un’eruzione che non accenna a placarsi, e che in questo tempo ha coperto di cenere tutto il territorio circostante facendo scappare buona parte degli abitanti della vicina cittadina di Vik.

La cenere però non è l’unica cosa che il vulcano butta fuori: all’inizio del pilot, da una zona impervia in cui si uniscono la lava del vulcano e i ghiacciai perenni della regione, spunta dal nulla una persona, una donna nuda e incrostata di cenere e fango, che viene soccorsa mentre è ancora in stato confusionale.
Già è strano aver trovato una donna in quelle condizioni e in quel luogo, ma la faccenda si complica ulteriormente quando si comincia a capire che la tizia, che risponde al nome di Gunhild (interpretata da Aliette Opheim), assomiglia in modo inquietante a un’altra Gunhild, che era passata da Vik vent’anni prima e di cui si erano perse le tracce.
Senza voler fare troppi spoiler, possiamo dire che Gunhild non sarà l’ultima persona a uscire dal vulcano, ce ne saranno altre, e pure queste non saranno completamente “sconosciute” agli abitanti del luogo, anzi.

Fra questi abitanti che, per un motivo o per l’altro, si ostinano a non lasciare il paese, troviamo Þór (ma lo chiameremo Thor perché così lo trascrive Netflix), che è vedovo e vive con un sacco di gatti; Gríma (Guðrún Ýr Eyfjörð), figlia di Thor, che ancora non si dà pace per la scomparsa un anno prima della sorella Ása (Íris Tanja Flygenring); Gísli (Þorsteinn Bachmann), capo della polizia locale che vive con la moglie costretta a letto, quasi immobile e muta per via di una malattia; Darri (Björn Thors), geologo a un passo dal divorzio con la moglie Rakel (Birgitta Birgisdóttir, palesemente un nome da hobbit di Tolkien); e poi altri personaggi ancora.

Katla è una serie potenzialmente pesante, sia in termini tematici (c’è proprio niente da ridere) sia in termini di ritmo: specialmente all’inizio, la barriera all’ingresso più importante è rappresentata da una discreta lentezza, da non confondere con l’assenza di eventi (in realtà succedono sempre molte cose e c’è anche una precisa pianificazione dei cliffhanger), ma da identificare piuttosto come un segno di stile abbastanza riflessivo, contemplativo, insomma nordico.
Allo stesso tempo, è anche un prodotto che sa creare tensione, sa far riflettere, e soprattutto è uno show che cresce di puntata in puntata, prendendosi il suo tempo per preparare la base di un racconto che funzioni, con la certezza che però poi funzioni davvero.

Katla, forse anche per questioni di marketing, viene venduta in primo luogo come un thriller di fantascienza, e certamente contiene entrambe le anime, a modo suo. Ma è soprattutto una serie ricca di simboli, e che attraverso quei simboli fa preciso un lavoro di scavo nella psicologia dei personaggi. L’idea di figure che letteralmente riemergono dal passato, ponendo i protagonisti di fronte alle loro paure, rimpianti e rimorsi, è uno strumento narrativo che prima incuriosisce con il mero elemento fantastico, ma che poi svela la sua vera natura di metafora: immersi in una situazione oltre i confini del reale, i personaggi sono prima di tutto costretti a guardarsi allo specchio, affrontando questioni che avevano sepolto con l’obiettivo di eliminare il dolore, condannandosi però a una vita di generale apatia, quasi anestetizzata.
In Katla ci sono amori, passioni, segreti, colpe, desideri nascosti e pulsioni irrefrenabili, e anche se tutto questo non trova quasi mai uno sfogo particolarmente “urlato” (sono pur sempre islandesi), la forza di quelle emozioni passa comunque con chiarezza sul volto dei membri del cast, tanto compassati quanto efficaci.

E mancherebbe all’appello un ultimo personaggio, che finora ho volutamente tralasciato, cioè l’ambientazione.
Ora, io credo che l’Islanda sia un posto così brutalmente e fascinosamente selvaggio, che dovunque metti la camera qualcosa di bello lo tiri fuori. Detto questo, però, in Katla c’è un fantastico lavoro di setting, che prende tutta la magia grigia dell’Islanda “normale”, e la ricopre pure di cenere vulcanica, facendo muovere i protagonisti in quello che è certamente un paesaggio freddo e inospitale, ma che in qualche modo ha una sua evidentissima vita. Anzi, considerando che le persone che escono dal ghiacciaio disciolto (vengono di fatto “partorite”) potremmo proprio parlare di una natura-madre, o quantomeno matrigna, che ospita i suoi figli ma li mette anche di fronte alle sfide della vita, per farli crescere.
Non c’è un solo momento, in tutta la prima stagione di Katla, in cui il paesaggio islandese, continuamente mosso e rimestato dall’attività del vulcano, non aggiunga qualcosa al tumulto interiore dei personaggi, che in quel vento e in quella specie di tempesta perenne non possono trovare vero sollievo dalle loro preoccupazioni.

Probabilmente, negli ultimi due episodi della stagione troviamo tutto il buono e il meno buono di Katla, o quanto meno tutti gli elementi che possono attirare o respingere, a seconda dei gusti.
Quando la serie tratta di petto la materia fantascientifica non riesce a soddisfare granché. Anzi, potremmo dire che siamo più dalle parti del fantasy che della fantascienza, e se siete fra coloro che amano il rigore, da questo punto di vista vi avverto che si può rimanere delusi. Allo stesso tempo, visto che parlavamo di simboli, l’ultimo episodio è anche quello che più di tutti usa non solo la scrittura, ma anche le tecniche più precisamente cinematografiche per rappresentare le difficoltà dei protagonisti a venire a patti con una realtà sorprendente che li costringe a comprendere prima di tutto se stessi, oltre che ciò che vedono coi loro occhi.
Katla è una serie dura, tosta, a tratti anche disturbante (è sconsigliata ai minori di 14 anni, e per motivi ben precisi), ma è anche un racconto che arriva dritto al punto, e lo fa con studiata linearità, senza nascondere il complesso gioco di specchi con cui sceglie di raccontare ciò che le serve, ma senza mai farci perdere la bussola.
Non sappiamo ancora se ci sarà una seconda stagione, per quanto la prima ne lasci ampiamente aperta la possibilità (ma non è che non esista un finale, tranquilli). Quello che sappiamo, però, è che se cercate un mystery dai toni e dai paesaggi diversi dal solito, Katla è una bella sorpresa.

(mi viene sempre da pensare che noi quando abbiamo dovuto fare il fantasy-Netflix abbiamo fatto Luna Nera. Mamma mia, sorpassati a destra dagli Islandesi, ci resta solo l’Eurovision)

Perché seguire Katla: è una serie con uno stile preciso e una precisa intensità, calata in un paesaggio clamoroso che non vediamo tanto spesso.
Perché mollare Katla: il ritmo è raramente incalzante e, se vi piace proprio la fantascienza dura e pura, sappiate che qui è quasi un pretesto.



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