27 Aprile 2022

Anatomy of a scandal – Una brutta serie per parlare della “crisi” di Netflix di Diego Castelli

Si è parlato molto di crisi di Netflix. Perché? Secondo quali parametri? E perché Anatomy of a Scandal ci aiuta a capirla meglio?

Pilot

Negli ultimi giorni si è parlato e scritto molto su quella che molti hanno definito come la prima vera crisi di Netflix, un fenomeno la cui portata cambia a seconda di chi ne scrive, ma che comunque merita qualche riflessione. È un argomento potenzialmente complesso e spinoso che non avevo tanta voglia di affrontare, ma che effettivamente andrebbe discusso. Allo stesso tempo, non avevo voglia di parlare di Anatomy of a Scandal (in italiano Anatomia di uno Scandalo), uno degli ultimi successi di Netflix di cui non volevo granché parlare perché non mi è piaciuto per niente, ma che proprio in virtù di quel successo diventa un inevitabile argomento di dibattito.

Insomma, un sacco di argomenti di cui non volevo scrivere, ma che effettivamente un articolo se lo meritano, anche se, specie in relazione alla fantomatica crisi di Netflix, difficilmente potrà essere esaustivo.
Però vabbè, siamo qui, proviamoci.

Prima di tutto, di che si parla quando si accenna alla prima crisi di Netflix?
Come comunicato dalla stessa azienda, nei primi tre mesi del 2022 Netflix ha perso più di 200 mila abbonati nel mondo, soprattutto negli Stati Uniti e in Canada. Non accadeva dal 2011 che il numero complessivo degli abbonati calasse su un trimestre invece di crescere, e per quanto si tratti di un numero relativamente piccolo rispetto al totale dei sottoscrittori (che al momento sono 221,6 milioni), questo campanellino d’allarme è bastato per far crollare le azioni di Netflix in borsa, dove hanno perso in un solo giorno più di un terzo del loro valore.

Ora, sul fatto che una crisi di questo tipo sia effettivamente qualcosa di preoccupante per il futuro dell’azienda, è difficile dirlo con certezza, ma tutti sappiamo che, in queste questioni e quando c’è di mezzo la borsa, la percezione collettiva conta molto: se si pensa che Netflix sia in crisi, e c’è anche solo qualche numero per mostrarlo, ecco che Netflix effettivamente è in crisi a prescindere dalla solidità effettiva della sua struttura. Ed è qui che, ovviamente, tutti cominciano a parlare dei perché di questa crisi e di come Netflix pensa di risolverla.

In questi giorni si sono sentite varie ipotesi, e Anatomy of a Scandal ne incarna una molto specifica, e nemmeno troppo nuova: l’idea cioè che la qualità complessiva dell’offerta di Netflix sia calata in modo vistoso, percezione che, naturalmente, potrebbe portare qualcuno a disdire l’abbonamento per cercare prodotti migliori altrove.

Ecco, mentre scrivo Anatomy of a Scandal – serie antologica creata dal solito David E. Kelley e da Melissa James Gibson, che nella sua prima stagione può fregiarsi di un paio di facce ben note come Sienna Miller e Michelle Dockery (la Lady Mady di Downton Abbey) – è ancora al secondo posto dei contenuti più visti in Italia, dopo dieci giorni dall’uscita. E questo nonostante il fatto che sia una serie piuttosto brutta.

Anatomy of a Scandal racconta, guarda caso, di uno scandalo politico che coinvolge James Whitehouse (Rupert Friend), un ministro molto amico del capo del governo inglese, che prima si scopre aver tradito la moglie con una sua impiegata, e poi viene accusato dalla stessa impiegata di aver abusato di lei.
Una storia quindi che attraversa la politica, il giornalismo, e infine le aule di tribunale, dove Kate (Michelle Dockery) è la pubblico ministero incaricata di gestire le accuse a James.

Tutto bene, tutto legittimo, ma anche tutto scritto male e messo in scena non molto meglio.
A dominare è una specie di disordine complessivo: per larghi tratti Anatomy of a Scandal è raccontato coi toni e le immagini della soappona pruriginosa, zeppa di primi piani sofferti e languidi, con un racconto che a voler essere buoni è dritto e preciso, e a voler essere cattivi è piatto e banale. Poi però ci sono anche dei virtuosismi registici che dovrebbero servire ad aumentare la suspense o a rappresentare in modo più vivo e corposo certi patimenti dei personaggi, ma che risultano inevitabilmente posticci e fuori giri.

Ma il vero scandalo, mi si perdoni il facile gioco di parole, sta alla fine del quarto episodio, il momento di cui quasi tutti quelli che hanno visto la serie finiscono per parlare (male). Dopo la foto qui sotto faccio una piccola sezione spoiler, ma per chi non volesse sapere niente, sappiate che il problema è un twist narrativo di una stupidità imbarazzante, così scemo da sporcare inevitabilmente tutta la narrazione complessiva, che peraltro è giocata su toni piuttosto cupi e pesanti.
Per chi volesse lo spiego meglio qui sotto, e poi passiamo oltre.

#INIZIO SPOILER#

Praticamente, dopo quattro puntate in cui Sophie, la moglie dell’accusato James, e l’avvocata Kate si sono viste continuamente, dal vivo e in tv, per giorni, si scopre che Kate non è altro che una vecchia amica dell’università di Sophie, e che anche lei è stata molestata da James, che effettivamente è un bastardo.

Ecco, io non lo so se questa idea c’era già nel romanzo di Sarah Vaughan da cui la serie è tratta, ma è evidente che sullo schermo non solo non funziona, ma è proprio terrificante: in pratica vogliono farci credere che due persone di quarant’anni circa non riconoscerebbero un’amica molto stretta di quando avevano vent’anni. Come se io non riconoscessi i miei compagni di università anche avendoceli davanti al naso per giorni.

È una roba che grida vendetta e che ti fa sentire stupido per avere perso tempo con sta ciofeca fino a lì.

#FINE SPOILER#

Bene, diamo quindi per scontato che Anatomy of a Scandal sia una brutta serie (se vi è piaciuta non vi offendete, si parla di dinamiche e percezioni complessive), e soprattutto una serie che “ti tradisce”, perché fino a quel punto non sembra un capolavoro, ma nemmeno così male, e poi ti tira la badilata che ti fa proprio venire voglia di disdire l’abbonamento.

Ecco, questo tema della qualità complessiva dei prodotti di Netflix è uno degli argomenti tirati in ballo quando si vuole spiegare la crisi di cui dicevamo prima. Parliamo insomma dell’idea che, rispetto all’inizio, Netflix offra meno prodotti imprescindibili, spingendo quindi una fetta di utenza a lasciar perdere per sopraggiunta noia.

È un tema interessante, che però non può essere liquidato con troppa facilità, e non è nemmeno il solo.

Se ci seguite da tempo, soprattutto sul podcast, sapete che parliamo spesso della natura “generalista” di Netflix. È un concetto che vale la pena approfondire.

Dal punto di vista dell’offerta e del modello di business, Netflix ha poco a che spartire con una rete televisiva generalista: quest’ultima è gratuita, finanziata dalla pubblicità, disponibile in tv, e legata all’idea di palinsesto; Netflix invece è a pagamento, senza pubblicità, disponibile su internet, slegata dalla gabbia del palinsesto.

Quando si parla del carattere sempre più generalista di Netflix, però, si fa riferimento al suo tentativo ormai palese di coinvolgere target sempre più larghi, che vadano molte oltre il tradizionale pubblico da pay tv, tipicamente descritto come adulto ma non troppo, e caratterizzato da gusti più raffinati della media.

Netflix non ha rinunciato a quel pubblico (quello che può essere interessato a Dark, Ozark o Il Potere del Cane, per dire i primi tre titoli che mi vengono in mente), ma ha inserito nel suo catalogo sempre più prodotti che fossero appetibili anche a chi cerca cose può semplici, chiare, perfino stucchevoli, che appunto assomigliano di più all’offerta della tv generalista.

Il risultato è che Netflix è perfino più generalista delle reti generaliste, che almeno mantengono, o cercano di mantenere, un’identità di rete che comunque le differenzi dalla concorrenza. Negli ultimi tempi, e facendo leva sul suo algoritmo che consiglia prodotti diversi a persone diverse, Netflix ha invece provato a proporre letteralmente “qualunque cosa”, praticamente senza limiti di genere o di target.

In termini di espansione complessiva, la tecnica ha funzionato, Netflix ha guadagnato moltissimi abbonati, ed è tuttora sinonimo mondiale di film e serie in streaming. Allo stesso tempo, però, il meccanismo non è andato via così liscio come speravano.

Sarà che l’algoritmo non sempre ci azzecca (dipende anche, ovviamente, dall’abilità dei minion di Netflix di taggare nel modo corretto i prodotti), ma sono ormai un paio d’anni che una discreta fetta del pubblico della prima ora di Netflix percepisce un calo della qualità che magari non è così effettivo in termini assoluti (cioè in termini di numero di film e serie valide prodotte in un anno), ma comunque percepibile in termini relativi, perché le persone che prima andavano su Netflix sapendo di trovarci a colpo d’occhio qualcosa di interessante, ora devono fare uno slalom non sempre facile in mezzo a prodotti medi o medio-bassi che fanno perdere tempo e fatica.

Questo è uno dei motivi che vengono tirati in ballo per spiegare i recentissimi problemi della piattaforma. Un motivo probabilmente verosimile, anche se si potrebbe pensare che gli abbonati persi per l’eccessiva “generalistizzazione” di Netflix dovrebbero essere compensati da quelli guadagnati per lo stesso motivo, ma sicuramente non l’unico.

Per esempio, c’è un discreta fetta di internet che punta il dito verso la decisa e innegabile virata woke da parte di Netflix, che nel recente passato ha puntato molto su film e serie dichiaratamente inclusive e diversificate nella scelta dei cast e soprattutto nella scelta degli argomenti di discussione. Se fate un giro in rete troverete facilmente una gran quantità di meme che ironizzano sul fatto che una qualunque storia (romanzo, fumetto ecc), a prescindere dalla sua origine artistica, geografica ed etnica, una volta sbarcata su Netflix si riempirà di personaggi di mille colori e identità diverse.

Al di là del giudizio etico e morale che si vuole dare su questa scelta, di cui Netflix va consapevolmente fiera, mi sembra che la scelta in sé sia abbastanza innegabile, e non è escluso che sia stata in grado di avvicinare alcuni utenti potenziali, allontanandone però altri.
Questi “altri”, per essere chiari, non sarebbero solo spettatori infastiditi dall’inclusività in quanto tale, ma anche persone colpite dall’impressione che, in alcuni casi, l’inclusività sia diventata una priorità assoluta, anche rispetto allo… scrivere una buona serie.
(Di nuovo, non importa che abbiano ragione o torto, stiamo parlando di una percezione soggettiva che può orientare comportamenti di consumo, e che Netflix deve in qualche modo saper gestire).

Ma si potrebbe continuare. È un fatto che la concorrenza, per Netflix, sia enormemente cresciuta negli ultimi anni, con diverse piattaforme altrettanto ricche (Prime Video, Apple TV+, Disney+) arrivate a offrire valanghe di contenuti e a contendersi l’attenzione degli spettatori (la cui disponibilità a pagare non è infinita).
Stesso discorso si potrebbe fare per la pandemia, che fece registrare un boom di abbonamenti da parte di persone che normalmente non sarebbero state disposte a sottoscriverli, ma che l’hanno fatto in un periodo in cui non c’era molto altro da fare, salvo poi decidere di annullare l’abbonamento nel momento in cui la vita è tornata a una semi-normalità.

Insomma, in questo marasma l’unica cosa che mi sembra si possa dire con certezza è che non esiste un solo motivo di difficoltà, anche se a volte i nostri interessi particolari ci suggerirebbero di pensare il contrario. Ci sono diverse spinte e controspinte, ognuna di forza non esattamente calcolabile, che se anche non stanno per fallire Netflix (evitiamo facili sensazionalismi) rappresentano però inevitabili motivi di preoccupazione.

E come reagirà la piattaforma?
In questi giorni si sono rincorse numerosi voci, sia lato contenuto che lato offerta.

Nel primo campo, Netflix non sembra voler giocare al ribasso, anzi: si parla per esempio di un robusto allargamento nei campo dei videogiochi, con studi acquisiti e numerosi titoli in uscita, naturalmente senza alcuna volontà di fare compromessi sul lato film&serie, con tutte le contraddizioni viste sopra.

In termini di modalità di offerta, invece, dopo i recenti aumenti di prezzo che potrebbero essere uno (un altro) dei motivi del calo di abbonamenti, si è parlato di un possibile nuovo abbonamento a prezzo inferiore rispetto allo standard, ma con l’inserimento di pubblicità. Cosa che, per ironia della sorte, avvicinerebbe ancora di più Netflix a quel modello generalista di cui prima si parlava a proposito del genere e taglio dei contenuti.
Allo stesso tempo, si è vociferato anche di una stretta sugli abbonamenti condivisi, cosa sulla quale Netflix qualche anno fa spingeva moltissimo al grido di “siamo tutti amici”, e ora è improvvisamente diventata un problema.

Quello che è certo è che per Netflix si prospetta una bella sfida da qui ai prossimi mesi e anni, una sfida comune anche ai suoi concorrenti, ma forse meno decisiva per loro, perché i vari Amazon, Apple e Disney possono contare su introiti molto consistenti che non vengono dai loro servizi di streaming, che invece è col core business di Netflix.

Per parte mia, da semplice fruitore, non ho alcuna intenzione di cancellare il mio abbonamento, e non solo perché mi serve per Serial Minds, ma perché continuo a pensare che Netflix sappia produrre contenuti di grande qualità.

Certo, poi è vero che si fa un po’ più fatica di prima a districarsi nel mare di prodotti, e se la gente mi guarda in massa Anatomy of a Scandal tocca guardarlo anche a me, e avrei anche fatto a meno.

Perché Seguire Anatomy of a Scandal: perché la bruttezza del quarto episodio può essere una cosa che effettivamente volete ricordare per sempre.

Perché mollare Anatomy of a Scandal: perché in quelle sei ore potreste cominciare a imparare i rudimenti dell’uzbeko.



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