12 Maggio 2022

The Pentaverate: Netflix ospita il ritorno di Mike Myers e di una comicità vecchiotta di Diego Castelli

Dopo anni di quasi-silenzio, Mike Myers torna con una commedia moderna nei temi e antica nei modi

Pilot

In principio, nel 1992, il successo arrivò con Fusi di Testa, dove insieme all’amico Dana Carvey interpretava uno sfigatone che oggi forse considereremmo un influencer. La fama vera, però, lo aspettava nel 1997: l’invenzione dell’anti-007 Austin Powers, a cui si aggiunse tre anni dopo anche il doppiaggio di Shrek, gli garantì fama mondiale e una saga molto remunerativa. Poi, però, la difficoltà a rimanere sulla cresta dell’onda, con il flop di The Love Guru e il sostanziale silenzio negli anni Dieci, farciti da poche apparizioni secondarie in qualche film.
Ora, nel 2022, Mike Myers è tornato, scrivendo e interpretando The Pentaverate, nuova miniserie di Netflix.

The Pentaverate racconta, per l’appunto, del pentavirato, una società segreta con a capo cinque uomini molto potenti, che fin dal Medioevo opera nell’ombra con un obiettivo abbastanza originale per una società segreta da film/serie: il bene dell’umanità.

Una miniserie che, già dopo cinque minuti, è purissimo Mike Myers, nel bene e nel male.

In The Pentaverate c’è una palese intenzione di “stare sul pezzo”. Per quanto l’idea di società segreta non sia certo nuova nella narrazione da piccolo e grande schermo, qui si spinge forte sul tema del complottismo, che invece è una delle cifre di questi anni.

Il pentavirato, nella percezione collettiva del mondo della serie, gioca nello stesso campo delle scie chimiche e della Terra piatta: è un rumor, una diceria, un segreto che alcuni impallinati sostengono di conoscere, e che tutti gli altri bollano come fake news.

Solo che il pentavirato esiste davvero, e quando il giornalista canadese Ken Scarborough decide di scoprirne un po’ di più, si accorge che è pure relativamente facile avvicinarlo e scoprirne i grotteschi segreti.

“Grottesco” è la parola chiave per capire The Pentaverate e la comicità di Mike Myers, che nonostante gli anni passati non è cambiata granché.
Prima di tutto c’è il fatto che Myers interpreta una decina di personaggi: cambiando ogni volta trucco e parrucco, l’autore impersona quattro pentavirati su cinque, il giornalista sulle tracce della società segreta, l’uomo che l’aiuta, e anche qualcun altro.

Al netto della perizia tecnica e della bravura vocale di Myers, il concetto stesso dei personaggi multipli ci ributta direttamente degli anni Novanta, quando anche Eddie Murphy faceva più o meno la stessa cosa, e ha scatenato commenti del Villa tipo “non ce la posso fare”.

Ma non c’è solo questo aspetto, a essere un po’ passato di moda. C’è anche la comicità stessa di Mike Myers, che è crassa, volgarotta, continuamente imperniata sul sesso e sulle produzioni intestinali.
Che si tratti di giochi di parole spesso difficilmente traducibili in italiano, o di portelloni di furgone che aprendosi modicano le scritte sulla fiancata per tirare fuori la parola “pene”, gira che ti rigira si finisce sempre a parlare cacca, pipì e piselli, un approccio che oggi qualcuno potrebbe trovare perfino provocatorio, in una società sempre più puritana e attente a non offendere mai nessuno, ma che anche con le migliori intenzioni non può che suonare un po’ vecchio.

Allo stesso tempo, però, Mike Myers e The Pentaverate hanno comunque qualche asso nella manica (comprese le comparsate di facce da noi molto amate, come quelle di Ken Jeong e Rob Lowe). A partire da un formato molto agile, sei episodi da mezz’ora che evitano di appesantire troppo il tutto, la serie gioca sui temi del complottismo per ridicolizzarne i modi e i toni, senza per questo astenersi dal dire che, effettivamente, il mondo è comunque guidato da un gruppetto di dementi, e che forse c’è la necessità di cambiare qualcosa, in termini di punti di vista sulla realtà (e si finisce a parlare di inclusività, non sempre in modo raffinatissimo).

Verrebbe da dire che in The Pentaverate non se ne salva uno, non i complottisti che credono ai danni del 5G, ma nemmeno i grandi magnati e guru della finanza che effettivamente tengono le redini del pianeta. Il risultato, per chi guarda, è il coinvolgimento in un circo satirico e surreale che sembra suggerire la necessità di prendere tutto, ma proprio tutto, con meno serietà, anche se, come detto, non si rinuncia a una morale finale vagamente dolciastra che forse depotenzia un po’ la forza dissacrante del tutto.

La satira e la decostruzione non risparmia neppure la stessa Netflix. All’inizio del secondo episodio, la voce narrante di Jeremy Irons dà il via alla sigla, che sembra identica a quella del pilot. Siamo pronti a cliccare sul pulsante per skippare l’intro, ma il bottone non appare, e la voce di Jeremy Irons esce dai binari e dice una cosa tipo “Che fai? Vuoi saltare la sigla? Non ti conviene, tanto lo so che non ti ricordi tutto dalla prima volta, quindi ascoltala ancora”.

Evito accuratamente di spoilerare le trovate più gustose, che si accompagnano ad intelligenze artificiali in forma di occhio racchiuso in un triangolo (abbastanza divina, come cosa…), citazioni cinematografiche più o meno esplicite, e gag effettivamente molto riuscite anche quando sono incentrate sui genitali della gente.

Sono questi piccoli tocchi di classe, questa abilità nello scardinare/svelare certi meccanismi narrativi e e di genere, a tenere viva The Pentaverate, a giustificarne la visione, e a ricordarci che Mike Myers, alle soglie dei sessant’anni, è ancora un autore intelligente, nonostante la sua comicità soffra i segni del tempo.

Poi certo, quei segni si vedono, e non tutti riusciranno a passarci sopra. Anzi, sono abbastanza convinto che oggi, specie in Italia che già non fu tra i paesi più appassionati di Austin Powers, la comicità di Myers farà più vittime che proseliti.

Al caro, vecchio Mike bisogna però riconoscere una buona dose di sincerità: per quanto la serie cresca col passare degli episodi, il suo stile è chiaro e netto già dopo cinque minuti. Se piace bene, sennò si passa oltre. Potremmo fare vari esempi di serie che invece ti fanno perdere tre ore prima di farti capire se è il caso o meno di scappare.

Perché seguire The Pentaverate: è Mike Myers all’ennesima potenza, intelligente ma scemo, creativo ma volgarotto, prendere o lasciare.

Perché mollare The Pentaverate: ci sono elementi della comicità di Myers che nel 2022 suonano ancora meno digeribili che nel 1997.



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