2 Agosto 2022

Uncoupled su Netflix – Il nuovo ritorno di Neil Patrick Harris di Diego Castelli

Uncoupled vede l’ex Barney Stinson nei panni di un agente immobiliare che viene mollato dopo 17 anni di relazione. E ora che si fa?

Pilot

La vera popolarità mondiale, nonostante recitasse da quando era ragazzino, gliela diede How I Met Your Mother, dove interpretava un donnaiolo accanito (lui che è dichiaratamente gay) capace di incarnare una tale icona di un certo tipo di maschio etero, da essere diventato col tempo un personaggio quasi problematico. Negli anni successivi, anni di grande affetto del pubblico, ha recitato al cinema (anche nell’ultimo Matrix), ha doppiato cartoni animati, presentato show televisivi, apparso in altre serie di discreto successo come A Series of Unfortunate Events.
E oggi Neil Patrick Harris torna, ancora una volta su Netflix, con Uncoupled.

Ormai prossimo ai 50 anni, Harris interpreta Michael, un agente immobiliare di lusso che da diciassette anni sta con lo stesso uomo, il fascinoso Colin (Tuc Watkins). Peccato che lo stesso Colin decida di mollarlo dall’oggi al domani, costringendo Michael a tornare solo in un momento storico in cui essere un gay single a New York è molto diverso rispetto a tre lustri fa.

Giusto per sgombrare il campo da ogni dubbio, o per non fare finta di niente, sottolineiamo subito che Uncoupled è orgogliosa rappresentante di tutta l’area “woke” di Netflix, cioè una di quelle serie in cui più si vede il tentativo della piattaforma di offrire prodotti che siano il più possibile inclusivi di minoranze, pubblici e sguardi finora bistrattati da un piccolo schermo tradizionalmente bianco-etero-cisgender.

E in questo caso non è nemmeno una cosa particolarmente forzata o irrealistica. Semplicemente, è palese l’intento di prendere una situazione-tipo che abbiamo già visto in mille serie e film (cioè un/una protagonista che si ritrova inaspettatamente single e deve rimettersi in gioco), ribaltando però la prospettiva da un punto di vista gay che, a sua volta, non è più così innovativo, ma che certamente si sente ancora sottorappresentato.

Tanto più che scegliere Neil Patrick Harris come protagonista suona come una sorta di riparazione di vecchi torti: un famoso attore gay, imbrigliato per anni nella parte dell’etero, può finalmente sfruttare la sua verve per un personaggio che, da quel punto di vista, gli somiglia di più.
(Sia chiaro, non ne sto facendo un discorso di giusto e sbagliato, e sono da sempre contrario all’idea che una persona possa o addirittura debba interpretare solo personaggi che le assomigliano in quanto a genere e orientamento sessuale, sto solo facendo una constatazione in termini di sistema.)

Fatta tutta questa premessa, e inserita la serie nel contesto più ampio di cui fa parte, vale poi la pena di chiedersi se funziona.
In questo senso, l’elemento inclusive nei primi minuti pesa un po’, e nel pilot troviamo dialoghi piuttosto didascalici che sembravano voler prendere fra le mani la testa dello spettatore per dirgli “sei una serie gay, ti sta bene? Sei d’accordo? Guarda che se non sei d’accordo è un problema”.
Diciamo un eccesso di manierismo. Poi quando la storia comincia a srotolarsi sul serio, si va via più lisci.

Se vogliamo, i problemi veri iniziano adesso. Forse proprio perché spinta dal desiderio di mostrare che un cinquantenne gay che rimane single ha più o meno gli stessi problemi di un etero – il ripensamento di sé in una nuova cornice, il desiderio di divertirsi ma anche la consapevolezza che non si hanno più vent’anni, la paura di rimanere da soli per sempre, lo shock in sé e per sé di una separazione apparentemente inspiegabile – Uncoupled ha un unico, grande difetto: quello di essere una serie fin troppo normale. O, per agitare uno spauracchio tipico, fin troppo media.

Naturalmente non ne faccio una questione di puro e semplice realismo. Io non so come sia la vita di un 50enne single e gay di New York, e non ho nemmeno la pretesa che una serie tv di Netflix me la racconti in modo preciso (anche perché spero non sia così, sono tutti belli e atletici, con pochissime eccezioni, e non c’è un etero a pagarlo oro, cosa che comunque è un problema per le protagoniste donne). Quello che mi interessa è essere intrattenuto e, magari, avere la possibilità di ragionare su qualche tema interessante.

Ed è proprio in base a questo ultimo aspetto, che Uncoupled potrebbe essere una serie adattissima anche a me: non ho cinquanta anni, ma ne ho comunque quaranta, anch’io sono single, anch’io vado sulle dating app (che io cerchi donne invece che uomini non importa, e anzi è una delle basi concettuali su cui si fonda la serie), e anch’io in questi ultimi anni ho provato le stesse sensazioni (dall’eccitazione allo smarrimento, dal timore per il futuro ai tentativi di gestire quegli stessi timori) che Michael è costretto a sperimentare suo malgrado, lui che già si vedeva a invecchiare con Colin guardando Netflix con la copertina sul divano.

Eppure, nonostante una tale vicinanza personale agli argomenti trattati, l’entusiasmo vero non scatta.
E il motivo sta semplicemente in una scrittura e in una gestione delle scene (sia drammatiche sia comiche) che poco aggiunge a cose che abbiamo già visto mille volte in altri prodotti simili.

La continua trepidazione per un nuovo incontro, la delusione nello scoprire che non porta da nessuna parte, una certa ansia da prestazione (emotiva prima che fisica) di fronte alla possibilità di (ri)provare certi sentimenti, il percorso necessario per passare da uno straccetto abbandonato in un angolo, a una persona stabile e serena, anche a prescindere dalle relazioni che si hanno o non si hanno: sono tutti argomenti “giusti”, necessari a un racconto di questo tipo, e alla fine della prima stagione, senza spoilerare niente, si ha l’effettiva percezione di aver spuntato dalla lista dei temi quasi tutto quello che capita a una persona nella stessa situazione di Michael, cioè tutto quello che ti permette di puntare lo schermo e dire “eh sì, è proprio così”.

Il problema è che, in questo tentativo quasi pedagogico, didattico, di raccontare questo tipo di dinamica, quello che si perde è un bel tot di forza drammatica.
Non si piange quando si dovrebbe piangere, non ci si appassiona granché quando ci si dovrebbe appassionare, ma soprattutto si ride relativamente poco quando si dovrebbe ridere (perché vale la pena di sottolineare, visto che non l’ho ancora fatto, che Uncoupled si presenta come commedia romantica).

Non è solo questione di una generale moscezza, da 6,5 in pagella non di più, ma anche di alcune precise scelte narrative. Ci sono sedicenti twist che si intravedono due episodi prima, ci sono situazioni davvero troppo abusate per essere ancora interessanti (“se non sai come creare imbarazzo, fai ubriacare qualcuno, e siamo a posto”), e anche quando la serie cerca di essere un po’ provocatoria, maneggiando in modo furbino la tematica-gay, non riesce comunque a essere particolarmente ficcante, perché Uncoupled, effettivamente, non vuole essere la classica serie-shock, e quindi finisce impastoiata in battutine e ammiccamenti che paiono usciti da una versione tarocca di Sex and The City, o da And Just Like That, che è la stessa cosa.
Vale la pena sottolineare, peraltro, che uno dei due creatori della serie (l’altro è Jeffrey Richman) è Darren Star, cioè appunto il creatore di Sex And The City, ma anche di Beverly Hills ecc ecc.. Uno che, in questi ultimi anni, ha già dimostrato di non riuscire ad aggiornarsi proprio benissimo (anche se c’è comunque gente che ama Emily in Paris, e non so bene come mai).

La vita sociale di Neil è popolata da un pantheon di personaggi che corrispondono a certi tipi che ben conosciamo (l’amica-collega single e in cerca di uomo vero, la coppia di gay libertini che funziona bene ma forse meno di quello che sembra, il vicino di casa anziano e saggio ecc), ma nessuno di questi riesce a spiccare in modo realmente efficace. Per ironia della sorte, nessuno riesce a essere il Barney Stinson della situazione, cioè il personaggio teoricamente non protagonista, ma che spesso si prende la scena con la sua verve e il suo istrionismo.

Vale la pena specificare che non si tratta di una serie sgradevole, non è questo il punto. Sono otto episodi da mezz’oretta che si vedono con facilità, che scorrono via, che qualche momento effettivamente divertente lo regalano, e che sono molto “riconoscibili”, cioè è possibile trovarci dentro delle cose che risuonano in modo chiaro nella nostra vita (e immagino ancora di più nella vita delle persone gay).

Semplicemente, è un prodotto molto medio, uscito su Netflix a fine luglio, che come da prassi finisce subito nella posizioni alte della classifica della piattaforma, ma che credo sarà poi dimenticato in fretta.
Se il protagonista non fosse stato Neil Patrick Harris, forse non ci saremmo nemmeno accorti davvero del suo arrivo.

Che poi una serie così sia comunque “utile”, nell’ambito della cultura mediale complessiva, sempre più variegata, inclusiva e normalizzatrice (nel senso positivo del “mostrare la normalità di situazioni ancora considerate spregiativamente anormali”), è certamente possibile.
Ma per noi serialminder che ci ammazziamo di serie dal Cretaceo e ne abbiamo viste di tutti i colori, imparando tutto quello che c’era da imparare, qui c’è ben poco di nuovo.

Perché seguire Uncoupled: se vi interessa la rivisitazione in salsa gay di un cliché narrativo ben conosciuto, e perché Neil Patrick Harris ha sempre il suo bel carisma.
Perché mollare Uncoupled: un po’ per scelta e un po’ per incapacità, è una serie che non racconta niente di davvero nuovo e che riesce a intrattenere solo “il giusto”.



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