27 Settembre 2022

Dahmer – Netflix: Ryan Murphy nella testa del Mostro di Milwaukee di Marco Villa

Dahmer è la storia di un serial killer in cui non si vede nemmeno un omicidio, ma in cui c’è una tensione che non ti molla mai

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Ridendo e scherzando, era da più di un anno che Ryan Murphy non faceva uscire una serie nuova. Le ultime erano state Halston e American Horror Stories (al plurale), a cavallo dell’estate 2021. Quasi da preoccuparsi, visti i ritmi creativi dell’amico Ryan. Il ritorno è in comfort zone, verrebbe da dire, ma in realtà è solo apparentemente così: Dahmer – Monster: The Jeffrey Dahmer Story (su Netflix dal 21 settembre) è sì una serie su un personaggio che non avrebbe sfigurato all’interno di un qualsiasi American Horror Story, ma affrontato in un modo del tutto differente.

La storia è quella di Jeffrey Dahmer, il cosiddetto mostro di Milwaukee, autore di almeno 17 omicidi brutalissimi, accompagnati da atti di cannibalismo. Siamo alla fine degli anni ‘80 e Dahmer è un ragazzo timido e impacciato che frequenta locali gay, dove adesca giovani promettendo qualche decina di dollari in cambio di una seduta fotografica a casa sua. Tutte scuse, perché dopo la foto arrivano le torture e gli omicidi. Fino a quando una potenziale vittima non riesce a salvarsi, scappare e convincere una pattuglia della polizia a controllare casa dell’innocuo Jeffrey. Tra teste in frigorifero, torsi semi-disciolti nell’acido e teschi puliti con attenzione maniacale, ce n’è per mandare Dahmer in carcere per sempre. Anche perché lui inizia a raccontare nei dettagli tutto quello che ha commesso.

E proprio dal racconto muove la serie, che è di fatto un lungo flashback per spiegare come un ragazzino qualsiasi è diventato un serial killer. La scelta è interessante: l’assassino è già stato arrestato e la tensione dello spettatore va quindi giocata in altro modo. Di fatto, l’unico momento in cui siamo in attesa di sapere cosa accadrà è la prima mezz’ora del primo episodio: una sequenza lunghissima, ambientata a casa di Dahmer, in cui lui procede con calma devastante verso l’uccisione della sua ennesima vittima. Uccisione che non ci sarà, in compenso c’è stata una tensione distillata secondo per secondo. Un po’ come se Murphy, che firma la sceneggiatura del primo episodio insieme al “solito” Ian Brennan, volesse farci vedere quello che Dahmer sarebbe potuto essere e invece non sarà, perché da qui in avanti sappiamo che tutti i ragazzi sequestrati dal killer non usciranno vivi dalla sua casa.

Volendo continuare in questo giochino da “quello che non c’è”, in Dahmer manca anche la violenza più esplicita, più grafica, per dirla all’americana. Come detto, si parla di un assassino che arriva a mangiare le proprie vittime, ma in Dahmer non si vede un accoltellamento. Vediamo un lento avvicinamento al momento dell’attacco e poi le conseguenze di quell’attacco. Intendiamoci, la violenza c’è, sempre e costante, ma è più legata all’atmosfera e al non detto. 

A conti fatti, Dahmer è una serie opprimente, che si appoggia in buona parte su una interpretazione notevole di Evan Peters, che forse finora ha raccolto meno di quanto avrebbe potuto in termini di riconoscimento e premi. L’altra colonna portante è la parte visiva, sia dal punto di vista della fotografia, sia da quello della regia vera e propria. Nell’appartamento di Dahmer ci manca l’aria, ci sembra di avvertire quella puzza di morte dovuta ai resti umani. Eppure siamo impotenti, esattamente come i vicini che provano a chiamare ripetutamente la polizia, ma senza successo perché abitano in una zona ad alto tasso di criminalità, che non interessa granché alle forze dell’ordine.

Perché Dahmer ha un altro livello, che probabilmente è molto caro a Murphy, ma forse è il meno riuscito della serie: il livello che vuole mettere al centro la tipologia delle vittime, omosessuali e appartenenti a minoranze asiatiche e afroamericane. Murphy butta lì la questione, ma non riesce a farla esplodere. Anche perché il vero fuoco è un altro, è la progressiva e inarrestabile caduta di un ragazzino come tanti, all’apparenza giusto un po’ introverso, in un abisso da cui non riuscirà a rialzarsi. Come se tutto nella vita di Dahmer avesse contribuito a renderlo ciò che è: dai genitori ai compagni di classe, fino alla società in senso lato. Tutto questo, senza assolverlo in alcun modo. Perché Dahmer è tante cose, ma anche un gioco di equilibrio notevole a livello di scrittura. 

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