8 Novembre 2022

Blockbuster di Netflix è dolciastra e appiccicosa (come i negozi Blockbuster) di Marco Villa

Blockbuster raccontata da Netflix è un cortocircuito strano, ma la serie gronda melassa ed è fuori dal tempo

Pilot

Ci sono alcuni spartiacque generazionali: per quanto mi riguarda, classe 1982, divido il mondo tra chi era abbastanza grande da guardare in diretta Roberto Baggio che sbaglia il rigore a USA ’94 contro il Brasile e chi no, tra chi ha usato il telefono a gettoni e chi no e pure tra chi ha perso del tempo a cercare un film da Blockbuster, in quell’aria malsana e dolciastra di moquette e pop corn. E chi no, ovviamente. Metto le mani avanti: non sono un fan della nostalgia, per niente, quindi mi fermo qui. Ma è un dato di fatto che Blockbuster sia a suo modo davvero un criterio di divisione generazionale: prima non c’era, poi è arrivato imponendo davanti ai nostri occhi la materializzazione di concetti astratti come multinazionale, identità visiva e globalizzazione. Poi se n’è andato, con una lenta uscita di scena, tutt’altro che eroica o pirotecnica.

Una uscita di scena in realtà parziale, perché di fatto un Blockbuster esiste ancora, in una città dell’Oregon. È l’unico rimasto ed è stato al centro di un documento un paio di anni fa, prima di diventare ambientazione di questa serie tv, che vorrebbe essere tanto brillante, ma alla fine è soprattutto dolciastra e appiccicosa, come quella famosa moquette.

Blockbuster è stata creata da Vanessa Ramos, che ha lavorato come autrice per Superstore e Brooklyn Nine-Nine, ovvero serie che raccontano dei luoghi di lavoro. E lì di fatto siamo: il primo episodio è dedicato all’annuncio che la filiale è l’ultima rimasta in vita e ai primi tentativi da parte dei dipendenti di provare a salvare la baracca (e il proprio lavoro). Ci prova innanzitutto il responsabile Timmy (Randall Park), un Peter Pan che vive un’eterna adolescenza e non riesce a dichiararsi a Eliza (Melissa Fumero), che ha dovuto mollare Harvard dopo essere rimasta incinta e ora si ritrova inchiodata nella sua città natale, quasi quarantenne, in aria di divorzio e con la consapevolezza di avere sbagliato qualcosa.

Ci sono poi i classici comprimari stilizzati: il commesso nerd, la commessa svampita, la commessa gen z caustica, la commessa più anziana trumpiana, ma di cuore. E pure il proprietario del negozio accanto, ex compagno di scuola di Timmy, che riveste il ruolo dell’eterno disturbatore, come da copione per una sitcom anni ’80.

E la sensazione è di essere proprio lì, in una comedy che sembra fuori dal tempo, ma non riesce a rendere questo elemento un punto di forza. Al contrario: la frequenza delle punchline è da sitcom multicamera, ma tutto il resto vuole essere iper-contemporaneo, a cominciare da alcuni dialoghi tutt’altro che piatti, come quello in cui il personaggio di Melissa Fumero spiega l’insensatezza di rendere una filiale di una catena il simbolo della resistenza al futuro che avanza.

Questi spunti sono gli unici interessanti, perché riescono a contrastare il tono melassoso generale, tutto giocato sul contrasto “noi sì che siamo vicino alla gente, mica l’algoritmo”. E qui arriva il vero punto focale della questione: Blockbuster va su Netflix, che è la principale responsabile della morte della catena di videonoleggio. Torno all’inizio: è come se nel ’94 i brasiliani avessero fatto un film o una serie per raccontare come si sentiva Roberto Baggio dopo aver sbagliato il rigore.

C’è qualcosa di strano, qualcosa che non torna, al di là del fatto che la nostalgia è qualcosa di irrinunciabile per la piattaforma. Quel discorso di Melissa Fumero, in sostanza, sarebbe potuto essere molto più meta e molto più ampio. Allora sì che Blockbuster sarebbe stata interessante. Così invece c’è davvero poco di convincente: qualche battuta qua e là, che però non riesce a scalfire la convinzione che no, un titolo così da Blockbuster non l’avremmo noleggiato.

Perché guardare Blockbuster: perché la nostalgia vi porta via

Perché mollare Blockbuster: per la sensazione di incompiutezza



CORRELATI