21 Dicembre 2023

Yu Yu Hakusho su Netflix – Menarsi nel modo giusto di Diego Castelli

Un nuovo live action, una nuova operazione fedeltà, ma soprattutto un sacco di cazzotti

Pilot

Che vi sia piaciuta o meno (e io non faccio parte della maggioranza in questo senso), è difficile negare che, nel mondo dei live action tratti da anime e altri cartoni animati, esista un pre- e post- One Piece.
Prima di One Piece, e specie dopo il fallimento di Cowboy Bebop, nessuno credeva (più) che Netflix fosse in grado di produrre convincenti trasposizioni in carne e ossa di serie animate, e c’era addirittura chi credeva che il tentativo in sé fosse strutturalmente perdente.

Dopo il successo di One Piece, invece, la prospettiva è cambiata: non solo si accetta la (piacevole) possibilità che i live action funzionino, ma anzi si dà per scontato, con i ribaltamenti tipici della nostra era tutta social, entusiasmi e incazzature polarizzanti, che ora Netflix abbia imparato, abbia capito il trucco, abbia compreso i segreti per un buon adattamento, potendo applicarli a tutti quelli che verranno.

Il segreto principale, che a dirla oggi suona banale ma che evidentemente banale non era, è quello della fedeltà: in un tempo di nerd puntigliosi e certezze mancanti, costruire dei live action che siano il più possibile fedeli all’originale, specie in termini visivi e di mood, pare la strategia vincente per arrivare al cuore del grande pubblico, anche quando il rischio da correre è quello di diventare pupazzosi e didascalici.

L’arrivo di Yu Yu Hakusho, primo live action di Netflix post-One Piece, si portava dunque dietro un’aspettativa legata a quei temi: sarà basato sulla stessa idea di fedeltà? Riuscirà a colpire allo stesso modo? Oppure rappresenterà un passo indietro, lasciando One Piece un unicum nel suo genere?

Dunque, premesso che sì, siamo abbastanza nello stesso campo da gioco, bisognerebbe anche partire da una precisazione. One Piece è ancora adesso l’anime più famoso al mondo, mentre Yu Yu Hakusho (che in italiano conoscevamo semplicemente come “Yu Yu” o come “Yu degli Spettri” se parliamo del manga) non era l’anime più famoso del mondo neanche quando effettivamente andava in onda per la prima volta, nell’ormai lontanissimo 1992 (in Italia arrivò nel 2001).

Mi pare una precisazione necessaria perché è chiaro che, partendo da due basi così diverse, sarebbe sciocco pensare di paragonare le due serie in termini di potenzialità sul grande pubblico.

Allo stesso tempo, ha invece senso chiedersi se Netflix, con questa nuova trasposizione, sta andando effettivamente nella stessa direzione di One Piece, tenendo pure conto che le due serie sono state prodotte quasi in contemporanea, e che quindi Yu Yu non è “figlia” del successo di One Piece, ma fa invece parte di una strategia più generale della piattaforma.

A un primo impatto, ma in realtà pure al secondo, mi sembra di poter dire che sì, con Yu Yu Hakusho Netflix segue una strada simile a quella di One Piece, pur con sfumature lievemente diverse, ma che in questi giorni le stanno consentendo di ricevere un generale favore del pubblico, che poi è quello che (legittimamente) le interessa.

Ora non voglio fingermi espertone di Yu Yu, che avevo visto solo una volta una ventina d’anni fa su MTV (nostalgia canaglia…), ma fra i miei ricordi e quello che ho letto in questi giorni, l’impressione è che, di nuovo, Netflix abbia puntato al cuore dell’operazione, o almeno uno dei suoi cuori principali: Yu Yu era un manga e poi una serie che puntava fino a un certo punto sulla trama, per concentrarsi soprattutto sulla fascinazione dei combattimenti, dei power up, dei personaggi carismatici con poteri carismatici che fanno cose carismatiche.

Ed è per questo che Yu Yu Hakusho (in versione Netflix) è una serie che si prende qualche (robusta) libertà sulla storia, soprattutto accorpando e avvicinando segmenti narrativi che provengono da porzioni diverse dell’anime, provando però a stare molto vicino all’originale in termini visivi, di ritmo, e potremmo dire “cinetici”.

In tutto questo, comunque, manco abbiamo detto di che parla.
Yu Yu Hakusho ha per protagonista Yusuke, un ragazzo solitario, ombroso, con tratti da bulletto di periferia e una vistosa abilità a menare le mani in risse da strada, ma anche segnato da un innato senso di giustizia e protezione dei deboli.

È proprio grazie a quel tratto di innata e nascosta bontà che Yusuke sacrifica la propria vita per proteggere quella di un bambino che sta per essere investito.
La morte di Yusuke non era prevista, in termini di destino cosmico, e per questo al ragazzo viene concessa una seconda possibilità.

Portato al cospetto di Koenma (in italiano “Piccolo Enma”), figlio del signore del mondo spirituale, Yusuke viene posto di fronte a una possibilità inaspettata: potrà tornare in vita, a patto di diventare un investigatore del mondo degli spiriti, dotato della capacità di usare l’energia spirituale per combattere (e grazie alla quale Yusuke svilupperà la sua tecnica più conosciuta, il Reigan), ma anche chiamato a svolgere le missioni affidate dal Piccolo Enma, che solitamente prevedono di menare dei demoni sfuggiti al loro regno e finiti in quello degli umani.

Perché alla base dell’universo di Yu Yu c’è proprio la connessione fra mondo umano e mondo dei demoni, uno stretto collo di bottiglia che qualcuno vorrebbe allargare per creare il caos, e che i buoni (Yusuke e i compagni che man mano arrivano al suo fianco) cercano di tenere ben stretto, occupandosi nel frattempo dei mostri che già sono arrivati nel nostro mondo a creare scompiglio.

Come accennato, in questa prima stagione Netflix accetta di prendersi qualche libertà narrativa e, in parte, di mood. Cinque episodi non sono molti, e Akira Morii e Kaata Sakamoto, autori del live action, scelgono di limitare l’elemento teen drama (molto presente nei primi episodi dell’anime) e di scompaginare l’ordine originale degli eventi, saltando a piè pari il famosissimo torneo delle arti marziali nere (immagino sia solo rimandato a un’eventuale seconda stagione) per prendere porzioni di storia teoricamente successive.

Sono le decisioni più stridenti in termini di fedeltà all’originale, e mi è già capitato di ricevere su TikTok il commento indignato di un ragazzo per il quale queste scelte bastano a rendere la serie “terribile”.
In realtà, per chi non conosce l’originale (e posso immaginare che siano parecchi) la storia del live action non presenta particolari problemi di tenuta e tutto scorre abbastanza fluidamente, pur in presenza di singoli dettagli che possono suonare bizzarri a chi non conosce il materiale di partenza.

Il più vistoso è forse la caratterizzazione visiva di Koenma, che in originale è un bambino di 5 anni con il ciuccio che a volte, ma solo dopo le prime apparizioni, viene presentato anche come un adolescente, sempre però dotato di ciuccio, con evidente effetto comico.
Ecco, nella serie di Netflix non c’è la versione di Enma piccolo-col-ciuccio, ma solo quella di adulto-col-ciuccio, che crea anch’essa un effetto comico, ma di genere diverso, condito da una certa dose di incomprensibilità.

Superate queste discrepanze narrative, però, il live action passa poi alla vera fedeltà, che è quella visiva e, come accennato, cinetica.
Si parte dalla buona somiglianza degli attori con le controparti animate, a partire dallo sguardo birichino di Takumi Kitamura, interprete di Yusuke, passando per la fedeltà dei costumi (primo fra tutti l’uniforme scolastica verde del protagonista) e arrivando alla gestione dei combattimenti.

Yu Yu Hakusho è una serie in cui ci si mena spesso, e in cui lo si fa bene.
Non c’è alcuna volontà di provare a costruire una versione “realistica” dei combattimenti di Yu Yu, e anzi si dà fondo all’atletismo degli stuntmen e (soprattutto) a un uso massicio della computer grafica, per ricostruire in modo pedissequo le stesse movenze dell’anime.

Abbiamo così demoni computerizzati che scoppiano di muscolazzi tamarri, eroi con capelli vistosamente colorati e pose plastiche da power ranger, poteri mistici che riempiono lo schermo di globi luminosi e sfumature sgargianti.

Un certo rischio di effetto cosplayer esiste in Yu Yu come esisteva in One Piece (in realtà in One Piece era anche più marcato, perché si faceva un uso più massiccio del trucco prostetico e a volte ci si dimenticava che cinquantenni con un’ascia al posto della mano avrebbero reso meno su schermo che su carta), ma nel complesso l’operazione funziona.

Yu Yu Hakusho è certamente una serie “vistosa”, probabilmente poco adatta ai fan di un’azione almeno nominalmente più realistica, ma una volta superato quell’invisbile scoglio concettuale è poi una serie che l’action lo sa fare eccome.

C’è grande attenzione alla costruzione plastica e coreografica dei combattimenti, e l’esagerazione tipica degli anime è sposata e introiettata senza paure o inibizioni, confidando in una CGI che non sarà quella di Avatar, ma che ormai ha raggiunto un livello tale per cui anche una produzione minore di Netflix riesce mettere in campo un livello dignitoso di mostruosità forzute, energie luminose, montaggi pazzerelli e poderosi raggi di energia, senza che l’effetto sia quello di una poracciata amatoriale.

A conti fatti, e parlando di soli cinque episodi, la forza di Yu Yu Hakusho sta tutta qui: costruire un’architettura narrativa snella e subito accessibile, per montarci sopra combattimenti esagerati fra umani stilosi e mostri bizzarri.

Alla fin fine, e pur con i distinguo dovuti soprattutto al tipo di ambientazione, l’operazione è effettivamente quella di One Piece, cioè l’accettazione del fatto che alcuni elementi esagerati del mondo degli anime possano effettivamente essere proposti così come sono anche nei live action, aspettandosi che il pubblico (nello specifico il pubblico occidentale) li accetterà anche così, perché la fedeltà conta più del rispetto di certe (vecchie?) regole di messa in scena all’americana.

Se devo dirvela tutta, a me Yu Yu Hakusho è piaciuta più di One Piece, immagino per motivi tutti miei legati al fatto che già in origine One Piece non mi fa impazzire (e in questo senso beh, il live action è fedele!).
Ma la cosa più rilevante mi pare essere il fatto che questi prodotti stanno effettivamente mostrando, o imponendo, un certo slittamento del gusto occidentale. Stanno insomma mostrando che il pubblico mondiale, coinvolto in rilasci contemporanei dei prodotti come mai era accaduto prima nella storia del piccolo schermo, è capace e desideroso di accogliere tentativi e sperimentazioni diverse, mostrando uno stranissimo miscuglio di elasticità e rigidità: elasticità rispetto a certe macro-regole ormai considerate vetuste, ma anche rigidità in termini di fedeltà agli originali della propria infanzia.

Staremo a vedere cosa succederà con Avatar: The Last Airbender, prossimo live action assai ambizioso di Netflix, e proveniente da un materiale ancora diverso (una serie americana che omaggia l’Oriente) ma anch’esso oggetto di un certo culto intransigente.

Perché seguire Yu Yu Hakusho: se vi piacciono i combattimenti esagerati, “alla giapponese”, è la serie per voi.
Perché mollare Yu Yu Hakusho: se pensate che gente coi capelli viola che usa le piante carnivore per combattere i nemici sia meglio vederla solo nei cartoni animati.



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