8 Aprile 2024

Ripley su Netflix – Una grande serie d’autore di Diego Castelli

Già ad avere Andrew Scott come protagonista vai sul sicuro, ma con Ripley c’è anche parecchio altro

Pilot

ATTENZIONE: CI SONO ALCUNI SPOILER IMPORTANTI (ANCHE SE NON IL FINALE)

Sono tanti anni che scrivo su Serial Minds e ancora più anni, praticamente tutta la vita, che guardo serie tv, eppure c’è un meccanismo psicologico e spettatoriale che ancora mi stupisce, quanto accade nel contesto giusto.

È quel meccanismo per cui, quando guardi un po’ di serie medie, o anche medio-buone, di fila, finisci con l’incastrarti in un lavoro costante di bilanciamento fra pregi e difetti, di valutazione di obiettivi, e di target, e di contesti, e di obiettivi rispetto ai contesti. Perché i pregi li vedi, ma vedi anche i difetti, e allora ti chiedi cosa debba pesare di più o di meno, e per chi. Insomma, una specie di autodifesa per restare a galla nei momenti di mediocrità.

E poi però – qui arriva lo stupore – può succedere che arriva una serie su cui magari avevi pure delle aspettative, ma che è semplicemente tutta giusta (o quasi), che parte da un’idea e resta coerente con sé stessa (anche nel suo distanziarsi in parte dal materiale di partenza, ma lo vedremo), che usa con gusto e saggezza i mezzi tecnici che ha a disposizione, che sa costruire l’arte senza dimenticare il divertimento.
Insomma, una serie bella e basta, su cui non devi stare troppo a preoccuparti. Una serie che ti ricorda che, quando le cose funzionano come dovrebbero, guardare le serie tv è ancora un passatempo appagante e fecondo.

Oggi parliamo di Ripley.

Disponibile su Netflix, Ripley è tratta dal romanzo del 1955 The Talented Mr. Ripley di Patricia Highsmith, già arrivato al cinema nel 1999 con un film omonimo, con protagonisti Matt Damon, Jude Law e Gwyneth Paltrow e noto in Italiano con il titolo “Il Talento di Mr. Ripley” (ma ancora prima nel 1960 con Delitto in pieno sole con Alain Delon).
E se volete una versione apocrifa, il recente e discusso Saltburn è di fatto una nuova versione della stessa storia, anche se la regista Emerald Fennell dice di no, ma gli occhi ce li abbiamo tutti.

Ho intenzione di fare qualche spoiler, o per lo meno di farne uno grosso, perché una serie così si merita un’analisi un filo più precisa, e senza quello spoiler non si riesce a farla.

Quindi ora spoilero, ok?

Ci siamo?

A posto?

Via.

Ripley racconta la storia di Tom Ripley (interpretato dall’amatissimo Andrew Scott di Fleabag), un contabile che in realtà è più che altro un piccolo truffatore, uno che riscuote crediti non suoi sfruttando tempismo e parlantina al telefono.
A un certo punto, Ripley viene ingaggiato dal ricco padre di suo vecchio amico, che vuole affidargli una missione: andare in Italia a recuperare il suddetto amico, che da anni sperpera i soldi del suo fondo fiduciario fingendo di fare il pittore e vivendo la dolce vita italiana fra spiagge, belle case e vino rosso.

Il problema è che Ripley, dopo aver accettato il ben pagato incarico, vola effettivamente in Italia e trova l’amico Dickie (Johnny Flynn) in compagnia della bella Marge, senza però alcuna intenzione di riportarlo a casa: cercherà invece di sostituirsi a lui e vivere la sua vita, in quella che potrebbe diventare la sua truffa più remunerativa.
La gran parte della storia, dunque, sarà incentrata sull’omicidio di Dickie da parte di Ripley (ecco qui lo spoiler) e i suoi successivi tentativi di non essere beccato, potendo così effettivamente vivere l’agiata vita dell’ex amico.

C’è un elemento importante del discorso che non so dove mettere, ma forse è il caso di dirlo subito.
Nonostante l’ispirazione dal romanzo di Patricia Highsmith sia dichiarata ed evidente fin dal titolo, questa Ripley si porta dietro una differenza sostanziale rispetto all’originale soprattutto in termini di approccio.

Se il romanzo era anche il racconto di un’amicizia morbosa, di un’invidia lacerante, di una gelosia patologica, per cui il racconto delle azioni di Tom è soprattutto la cronaca delle azioni di una mente malata che vuole impadronirsi dell’intera vita di un’altra persona, la serie, che pur racconta le stesse cose, sembra invece più interessata ad altre dinamiche.

La Ripley di Netflix è meno pruriginosa, meno morbosa, e più incentrata sull’anima thriller-truffaldina della vicenda, come si vede dall’ampio spazio dedicato alle indagini post-morte di Dickie e ai tentativi sempre più complicati, da parte di Tom, per restare libero.

Non è una scelta ininfluente, né priva di rischi, né automaticamente digeribile, come sempre in questi casi.
Fortunatamente, però, Ripley ha così tanti altri pregi, soprattutto formali, che quel potenziale problema passa in secondo piano a fronte dell’esperienza complessiva offerta dalla serie.

È come se Steven Zaillian, creatore della serie, avesse detto: “Dai ragazzi, la storia la sapete, e dal 1955 a oggi il triangolo a tinte omosessuali e psicopatiche non fa più notizia, forse è pure un filo offensivo, quindi facciamo qualcosa di diverso”.

Quel qualcosa di diverso, per Zaillian, parte probabilmente dall’ingaggio di Robert Elswit, direttore della fotografia premio oscar per Il Petroliere, che lo aiuta a dar vita a una serie in bianco e nero che è insieme un omaggio al passato del cinema e un qualcosa che oggi ci appare comunque diverso e straniante.

Ripley sembra a tratti un thriller hitchcockiano e a tratti un film d’autore di origine nordica, alla Bergman, senza però perdere una vena ironica e surreale da Hollywood più recente, e se è vero che può essere un po’ lenta, bastano pochi episodi, se non addirittura poche scene, per farsi catturare da un racconto che capiamo subito meritare la nostra attenzione.

Nonostante l’importanza delle scelte operate in fase di scenaggiatura, a cui abbiamo già accennato, Ripley si avvicina molto al cinema proprio perché a contare di più, nell’esperienza complessiva, è quello che si vede e si sente.

Il bianco e nero della serie è incredibilmente affascinante, ma soprattutto funzionale a una precisa idea di messa in scena. L’assenza di colore, unita però a un’amplissima sfumatura di grigi, scolpisce i corpi, aumenta il valore delle ombre in una storia che di ombre (vere e metaforiche) si nutre dal minuto uno, aumenta i contrasti quando si tratta di mostrare qualcuno che ascolta non visto, là in fondo all’inquadratura, e certamente contribuisce a spedirci indietro nel tempo, con la consapevolezza che una storia ambientata negli anni Sessanta ci sembrerà ancora di più tale se verrà raccontata senza colori.

Ma in realtà, il risultato migliore questo bianco e nero lo ottiene proprio nella rappresentazione dell’Italia.
Di per sé, Zaillian non cerca l’Italia da cartolina, per quanto la storia di per sé lo giustificherebbe: Dickie è scappato da New York proprio per rifugiarsi in un paradiso terrestre in cui possa comportarsi come un Adamo pre-mela, privo di problemi e responsabilità.
La cosa bella, però, è che spogliare l’Italia dei suoi colori, almeno agli occhi degli spettatori di oggi, contribuisce a renderla molto meno accogliente e più spaventosa. Quella di Tom Ripley è effettivamente una storia di freddi grigi, non di colori caldi, e basta una scena, quella dell’omicidio di Dickie, per rendersene conto: quella violenza improvvisa, nella barchetta in mezzo al mare, diventa molto più impattante se quel mare e quel cielo sono grigi e plumbei, più che azzurri e luminosi come da tradizione della rappresentazione italica.

E quello stesso mare grigio, reso ancora più tetro dalla notte, tornerà poi spesso nelle paranoie di Ripley, quando sarà in fuga dalla legge.

Al di là della scelta cromatica, poi, Ripley è una serie che vive di tanti piccoli dettagli visivi, un puzzle di sottolineature e richiami interni che contribuiscono ora alla creazione della tensione, ora alla sua consapevole diluizione in scene quasi comiche, in cui la tragedia raggiunge il punto di tracimare nel grottesco.

Del primo gruppo fanno parte tutte quelle inquadrature ravvicinate degli oggetti, che servono a mettere gli spettatori un passo avanti ai personaggi, in attesa di uno svelamento che appare inevitabile.
Macchie di sangue semi-nascoste ma che potrebbero essere scoperte fra poco, anelli rubati ai morti che non devono essere identificati, passaporti contraffatti che potrebbero essere riconoscibili a un’occhiata appena più attenta. In particolare, il lavoro sull’immagine di Dickie e di Ripley è maniacale, con le mille trovate necessarie a fare sì che chi conosce la differenza fra i due non possa mai parlarne con chi invece li confonde.

Non tutti questi dettagli e piccoli campanelli d’allarme fanno poi effettivamente scattare le sirene, e anche qui si vede la maestria di un autore che usa consapevolmente molte tecniche del cinema classico, tradendole però all’ultimo momento proprio per spiazzare gli occhi altrimenti troppo allenati degli spettatori del 2024.

Negli altri casi, quelli dell’ironia, si lavora invece soprattutto di montaggio e di ripetizioni. La scaltrezza di Ripley si scontra spesso con la fatica muscolare e gli intoppi casuali, e una barca da affondare o un corpo da trascinare diventano spesso motore di gag fisiche che funzionano anche sulla base della ridondanza, del mostrare quanto un piano perfetto possa essere messo a rischio da inezie sciocche, da smagliature imprevedibili.

Sono momenti che allentano la tensione senza annullarla, e che creano oasi di intrattenimento puro, in cui la vicenda perde la possibilità di diventare una vera e propria tragedia, ma guadagna una qualche forma di eternità, di contemplazione esterna e disincantata sulle cose umane, sulle vicende pazzerelle di questo gruppo di sciroccati perditempo, ognuno incapace di accontentarsi, di godersi una vita che altri si sognerebbero.

In ultimo, non è possibile tacere sul lavoro con e degli attori.
E non mi interessa nemmeno troppo soffermarmi su Andrew Scott, che già sapevamo essere interprete di enorme talento, qui perfetto nelle varie sfumature di un personaggio non esattamente a posto con la testa, insieme inquietante e divertente, forse appena un po’ depotenziato da quella mancanza di prurigine a cui si accennava all’inizio.

No, per una volta, e con entusiasmo e una punta di orgoglio patriottico, dico “che bravi gli italiani”.
Essendo ambientata quasi interamente nel nostro paese, Ripley è piena di attori e attrici nostrani, con alcuni nomi di peso come Margherita Buy, e tutti funzionano, si incastrano alla perfezione, anche quando la sceneggiatura gli impone di sfiorare la macchietta.

In particolare bisogna applaudire Maurizio Lombardi, che già conoscevamo, fra le molte cose, dalle due serie papali di Sorrentino, e che qui interpreta un ispettore incaricato di indagare sulla scia di sangue lasciata dietro da Ripley. Un personaggio immediatamente carismatico, che riempie la scena con pochissimi gesti e sguardi significanti, e con la solita, maniacale attenzione ai dettagli (si veda il modo, sempre uguale e riconoscibilissimo, in cui si prepara all’ascolto degli interrogati tirando fuori il taccuino, facendo scorrere rapidamente le pagine e cliccando poi sulla penna).

In tutto questo ben di Dio di creatività e attenzione alle immagini, con i continui richiami a Caravaggio che sembrano quasi una dichiarazione di stile, un amore per le potenzialità della luce ancora prima di quelle del colore, trovo solo due difetti specifici.

Da una parte c’è una scena di mascheramento, di trucco e parrucco, che è molto importante per la trama ma che ho trovato inevitabilmente poco credibile (non so se ci fosse nel romanzo, ma messa così l’ho trovata debole, non faccio altri spoiler).
In secondo luogo, c’è una scelta immagino “inclusiva” che non ho capito: c’è un personaggio, Freddie, che è un personaggio maschile e tale rimane nel passaggio da romanzo a serie tv, ma che nella serie viene fatto interpretare da una femmina biologica, Eliot Sumner, che peraltro è la prole non binaria di Sting.

Ora, di per sé non sono mai contrario per principio ai gender-swap nei vari adattamenti successivi di una storia, e nello specifico di questa serie il personaggio di Freddie poteva essere di qualunque genere. Se però tu, per di più in una storia ambientata negli anni Sessanta, mi presenti un personaggio dichiaratamente maschile, interpretato però da un’evidente femmina, io non posso che pensare che questa cosa avrà rilevanza per la trama, tanto più che, al primo incontro con il protagonista, Tom sembra accorgersi di “qualcosa che non torna”.

Il fatto che questo dettaglio non abbia poi alcuna rilevanza finisce per farci spendere risorse attentive su una cosa che non ha valore, spezzando un po’ la tensione del tutto.
Poi naturalmente qualcuno potrebbe dirmi che non è previsto che io noti questa cosa perché insomma, il genere è un costrutto, e Eliot Summer si auto-colloca nella non binarietà ecc ecc. Tutto benissimo, però poi non faremmo il nostro mestiere se non accettassimo che le immagini (e il modo in cui sono costruire) hanno degli effetti precisi che non è sempre possibile eliminare perché “è giusto così”.

Arrivati alla fine, il giudizio su Ripley non può che essere ampiamente positivo.
Ci è capitato spesso di dire che Netflix, più che perdere smalto in termini assoluti, nel corso degli anni ha diversificato così tanto la sua offerta, da rendere semplicemente più difficile trovare le cose belle in un mare di cose dozzinali-ma-remunerative che ha deciso di produrre per rimanere fra i leader dello streaming mondiale.

Ripley ci ricorda esattamente questo, perché in mezzo a tante serie e film di livello più basso, la creatura di Steven Zaillian è una piccola gemma d’autore da godersi tutta d’un fiato, e da assaporare a ogni inquadraturo, ogni angolo, ogni svolta di montaggio. Una serie ben scritta, girata con mano saldissima, fotografata con gusto quasi pittorico, e ottimamente interpretata perfino dalle comparse italiane.
I suoi pochi difetti, peraltro opinabili, non sporcano un prodotto che potete consigliare senza se e senza ma, con la consapevolezza di poter suonare fighi a ragion veduta.

Perché seguire Ripley: un adattamento che, più che “fedele”, trova una sua debordante personalità.
Perché mollare Ripley: Nel primo episodio paga il dazio di alcune lentezze da serie d’autore.



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