14 Settembre 2010 4 commenti

Glee: torna l’unico e solo telefilmusical! di Diego Castelli

La serie ad alto tasso di testosterone ed ugole d’oro.

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SI PARLA DEGLI AVVENIMENTI DELLA PRIMA STAGIONE

Mai stato amante dei musical. Poi è arrivato Glee.

20 maggio 2009. Ore 23:50 circa. Mi appresto a vedere il pilot di una nuova serie. Un telefilm musicale con liceali ormonati che zampettano e strillano. Mi chiedo se ne valga la pena. Di High School Musical e puttanate simili mi pare ce ne siano già abbastanza. Però canti e balli nella serialità televisiva non sono cosa normalissima (se non per puntate speciali, come in Buffy o Scrubs, o per vecchie serie come Saranno famosi), e poi l’autore è Ryan Murphy, quello di Nip/Tuck. Vabbe’ dai, diamo una possibilità a questo Glee. Manco so cosa voglia dire…

Questo fu il mio approccio alla faccenda. Ebbene, 40 minuti dopo ero in uno stato di euforia cosmica. In piedi. Applaudivo. Da tempo non mi imbattevo in un pilot così intenso e, soprattutto, così intelligente.

Glee mostra effettivamente un’accozzaglia di sfigatelli grassocci, effemminati o balbuzienti, che gettano le loro speranze di riscatto nel Glee Club, presi subito di mira da giocatori di football e cheerleader. Storia di crescita, di abbattimento dei pregiudizi, di emarginati che cercano un modo per diventare qualcuno. Ma c’è di più. Grazie a Dio. Perché se fosse solo quello, sarebbe la solita solfa. Ryan Murphy ha invece capito che la semplice inserzione del musical nel teen drama non poteva essere sufficiente e nemmeno così innovativa.
E allora ecco arrivare l’ingrediente magico: l’ironia!
Potrà sembrare secondario, nel tripudio di note e di premi, ma l’ironia di Glee è componente fondamentale dei suoi successi. Se non ci fosse, Rachel non sarebbe così irritante, Finn così imbecille, Kurt così checca, Sue Sylvester così meravigliosamente stronza. Dal primo minuto della serie, tutto ciò che potrebbe essere troppo zuccheroso o troppo facilmente retorico, viene stemperato da una battuta, un’immagine, un retroscena che riporta tutto a terra. Questo non vuol dire eliminare il pathos. Vuol dire avvicinarlo alla consapevolezza (a volte chiarissima) che stiamo vedendo una serie tv, e che quindi non c’è bisogno di metterla giù troppo dura.

Faccio un esempio, tra i milioni possibili. Gara canora. I nostri preparati e agguerriti. Tensione a mille, che X-Factor ci fa una pippa. Coreografie, canti. Tutto preciso e colorato, da manuale diabetico. Poi però ci fanno vedere i giudici. Le persone incaricate di scegliere i vincitori. Quelli che possono spezzare o realizzare i sogni fanciulleschi dei nostri beniamini. E sono tutti, invariabilmente, dei totali dementi. Egocentrici, buffi, sorprendentemente ignoranti. La commovente voglia di riscatto di Rachel e soci, roba da Amici di Maria, è in mano a uno striminzito branco di rincoglioniti. Totale sovvertimento delle regole di genere, e senza che la tensione ne risenta in alcun modo. Mai visto niente di simile. Giù il cappello, Ryan Murphy è un genio.

Purtroppo, ci sono dei difetti. Finora Glee ha vissuto di personaggi memorabili (Sue meriterebbe un post a parte), immagini ficcanti e battute ad effetto. Alcune performance hanno fatto storia, come il balletto dei giocatori di football sulle note di Single Ladies, la Imagine cantata dai ragazzi sordi, il duetto Sue Sylvester-Olivia Newton John, la Bohemian Rapsody durante il parto di Quinn. Quello che ha scricchiolato è la struttura generale. Nonostante un finale azzeccatissimo, la sceneggiatura della prima stagione è stata parecchio disordinata, con troppi ribaltamenti di fronte, troppi mescolamenti umorali, troppa attenzione al “qui ed ora”. Il risultato è che alcuni episodi sono noiosi, troppo a sé stanti o inverosimili.

Se la seconda stagione, in partenza il 21 settembre, sarà in grado di sommare alle esibizioni canore e alle battute fulminanti una struttura complessiva più solida e coerente, Glee diventerà un capolavoro.

Io, nel mio piccolo, sono pronto.

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