23 Ottobre 2018 3 commenti

The Haunting of Hill House: un po’ drama, un po’ horror, e funzionano tutti e due di Antonio Firmani

Hill House è una bella sorpresa in un autunno dove abbiamo avuto troppe delusioni

Copertina, Pilot

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ATTENZIONE SPOILER SU TUTTA LA PRIMA STAGIONE

Il 12 ottobre su Netflix è sbarcata The Haunting of Hill House, serie horror ideata e interamente diretta da Mike Flanagan, e basata sul’omonimo romanzo cult di Shirley Jackson, datato 1959. Mike Flanagan non è un nome messo lì a caso, tanto è vero che proprio per Netflix vanta la regia dell’indovinatissimo Il gioco di Gerald, riadattamento di un romanzo di Stephen King, a sua volta grande fan e per certi versi (e sua stessa ammissione) discepolo della Jackson. Scelte non casuali insomma. Il romanzo della Jackson, inoltre, vanta già due tentativi di riadattamento: The Haunting (1963) e Haunting- Presenze (1999).

Due piccole premesse. La prima: se siete fan sfegatati del libro e approcciate questa serie con l’unico intento di scoprire come si dipana sul grande schermo la storia di Shirley Jackson, lasciate stare, la storia è completamente diversa. Omaggia il libro qua e là, ma il plot cambia radicalmente.
La seconda: se siete alla ricerca di un horror in cui si urla per tutto il tempo (e per lo più in maniera immotivata), in cui si insegue l’effetto sensazionalistico a tutti i costi, in cui il sangue schizza da tutte le parti, quasi ai limiti del pulp, lasciate stare, risparmiatevi questi quasi 700 minuti di girato (un’ora a puntata circa, con picchi di 70’), Hill House non è niente di tutto questo. Siamo davanti a un horror quasi delicato, perdonate l’ossimoro. Non è un caso che l’ultima puntata, quella che chiude la stagione, si chiami “Il silenzio si espande” (“Silence lay steadly”). Qui il terrore quasi ci viene sussurrato.

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Dice bene Mike Flanagan, quando sostiene che prima ancora di aver paura, bisogna empatizzare coi personaggi, perché solo se ti sta veramente a cuore quello o quell’altro, puoi avere paura quando gli succede qualcosa di brutto. Ed è così. Lo storytelling è molto raffinato, al centro della storia c’è un family drama a tutti gli effetti, e il nucleo narrativo non è rappresentato dalla comparsa delle presenza di Hill House ma, posta la presenza degli spiriti come condizione di partenza, lo snodo è dato da come i personaggi reagiscono, interiorizzano e si relazionano l’un l’altro.
Azzardo: forse Flanagan potrebbe aver aperto la strada a un nuovo genere, quello del silent horror, una narrazione complessa e delicata, pienamente seriale, che in punta di piedi entra e scava a fondo nelle paure e nelle angosce di ognuno di noi, usando come cavallo di Troia i personaggi a cui ci affezioniamo puntata dopo puntata.

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La storia è quella della famiglia Crain, mamma, papà e cinque bimbi, che in un’estate di inizio anni ’80 compra la tenuta di Hill House per rimetterla a nuovo e rivenderla a prezzo maggiorato. Architetto lei, costruttore lui, fanno questo da sempre, e da sempre si muovono con figli al seguito. Solo che stavolta gli dice male, perché Hill House non è una casa come tutte le altre, ma è infestata dai fantasmi.
Questa forse è la parte più debole di tutta la storia: sappiamo da dove vengono e chi sono questi fantasmi, ce lo dice proprio mamma Olivia che stanno lì. Sappiamo che gli abitanti della casa possono vederli, ma non vengono attaccati da loro (anche se poi non è proprio così). Quello che non sappiamo è cosa muova veramente queste presenze. Perché poi iniziano ad attaccare i Crain? Sono solo un pasto o c’è dell’altro? Perché se sono solo un pasto da consumare, non si capisce perché la casa impieghi un quarto di secolo per poi fallire. Se invece c’è dell’altro, non ci viene detto. Fatto sta che i Crain sono lì, e quella che doveva essere un’estate spensierata per i bimbi diventa invece un incubo senza fine. Quello che i bambini vedono a Hill House, morte della madre inclusa, se lo porteranno dietro per tutta la vita.

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La storia si dipana su due linee spazio-temporali diverse. Non è una scelta modaiola, bensì uno strumento per certi versi obbligato, perché man mano che ci viene svelato qualcosa di quella estate a Hill House, subito ci viene mostrato come quel preciso avvenimento abbia ripercussioni importanti su quel personaggio al giorno d’oggi.
Le prime cinque puntate sono dedicate ai cinque figli Crain, una ciascuno. Metà degli episodi, quindi, serve quasi da introduzione. Dal sesto in poi, “Due temporali”, in cui muore Neil e la famiglia si riunisce da Shirley (che ha un’impresa di pompe funebri), la storia va avanti. La regia è intelligente, Flanagan è molto furbo in generale e in questa puntata in particolare, in cui lunghi piano sequenza la fanno da padrone. Lo spettatore è completamente catapultato nel dramma dei Crain, e l’horror per qualche momento scivola in secondo piano, ma non ti pesa. La serie è piena di rimandi, tutti colti, ma anche funzionali alla storia. Dallo sdoppiamento temporale di It al drama funerario per eccellenza, Six Feet Under.

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Hill House è una serie interamente orizzontale, in cui anche i minimi dettagli godono di grande attenzione, e dove proprio la forma seriale permette quello scavo psicologico e quel drama di cui l’horror si nutre come base di una paura meno improvvisa e più organica.
Fra quei dettagli ce n’è uno che colpisce.
Quando una storia viaggia su due linee temporali diverse, nella stragrande maggioranza dei casi si prende un attore e, quando c’è lo switch temporale, lo si invecchia o ringiovanisce a seconda dei casi, usando trucco e parrucco o, nel film più costosi, effetti digitali. Come per Mandy Moore in This is us, per intenderci. Qui invece no. Per interpretare papà Crain scelgono due attori diversi. Hugh Crain giovane lo fa Henry Thomas e Jugh Crain meno giovane lo fa Timothy Hutton. Sulle prime sembra una bizzarra scelta produttiva, che però rivela un senso preciso: da giovane Hugh è il pilastro della famiglia Crain, è un padre esemplare e così viene percepito dai suoi bambini. Dopo tutto cambia, Hugh si accolla parecchie responsabilità e recita un ruolo ingrato pur di tenere per sempre i propri figli lontani da Hill House. Intanto però il rapporto fra lui e i suoi ragazzi si deteriora, lui non è più il pilastro, la roccia a cui aggrapparsi nella tempesta, ma quello che ha lasciato che la mamma morisse. Ed è per questo che Hugh cambia agli occhi dei bambini, ed è un cambiamento che merita un sottolineatura importante, da qui il cambio d’attore. Perché agli occhi dei figli (e in un certo senso anche ai nostri) è proprio un’altra persona. Quando poi tutto sta per finire, e Hugh ha finalmente risanato i rapporti coi figli, ecco che agli occhi di Steven torna l’amato papà Crain, giovane, proprio pochi istanti prima di entrare nella stanza rossa e di ricongiungersi con l’amata moglie. Molto bello. Come molto bella è la chiusa in cui ancora una volta (sulle note della bellissima “If I go, I’m going” di Isakov) ci viene ricordato il senso di tutto questo, e che nell’America trumpiana probabilmente vuole avere un significato ancor più ampio: puoi alzare tutti i muri che vuoi (vedi il signor Hill) e trincerartici dietro, puoi provare a scappare quanto ti pare dalla tue paure, ma alla fine verranno sempre a scovarti, perché il problema vero non viene da fuori, ma da dentro di te.

Perché seguire Hill House: Perché pur cambiando radicalmente il plot, tiene il passo di un libro bellissimo come quello di Shirley  Jackson.
Perché mollare Hill House: La trama scricchiola in qualche piccolissimo punto ma onestamente di ragioni ne ho veramente poche da fornire.

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