25 Ottobre 2018 6 commenti

Daredevil 3 – Un bel ritorno, appena troppo “ritorno” di Diego Castelli

La terza stagione di Daredevil ha tutti i pregi della prima, ma forse manca qualche vero passo avanti

Copertina, On Air

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SPOILER SU TUTTA LA TERZA STAGIONE

Non so bene come affrontare questa recensione della terza stagione di Daredevil. Perché se da una parte mi è rimasta la sensazione di aver visto tante cose belle, molte delle quali uscite dallo stesso bagaglio visivo e narrativo che al debutto della prima stagione ci avevano fatto gridare “uella”, dall’altra c’è anche la sensazione di qualcosa che stona o, meglio, qualcosa che manca.

Partiamo proprio da qui. La terza stagione di Daredevil inizia dalla fine di Defenders, ed è quindi una diretta conseguenza di quella serie-crossover. Solo che di quel mondo, in questi tredici episodi, non c’è più nulla. Ma niente eh. Un accennino a Jessica Jones e basta. Non si capisce dove possano essere finiti gli altri eroi, né si ha notizia del Punitore, che non viene mai nemmeno citato, nemmeno da quella Karen che con Frank Castle aveva stabilito un rapporto speciale, che forse poteva anche prevedere un messaggio di whatsapp per dire “Karen, so che lì è un po’ una merda, che faccio, do una mano?” e lei che risponde “ma va figurati, ce la caviamo alla grande, no paura”.
Invece niente, e se consideriamo che la terza stagione di Daredevil è uscita praticamente nello stesso giorno della cancellazione di Iron Fist e Luke Cage, le domande che lo spettatore inevitabilmente si fa sullo stato del Marvel Universe targato Netflix rischiano di spezzare un po’ l’epica di un racconto che aveva costruito un certo respiro, e improvvisamente sembra tornato a una dimensione più piccola e personale.

Daredevil (4)

Di buono c’è che in quella dimensione c’è davvero tanta roba buona. Con la terza stagione Daredevil è tornata serenamente ai fasti della prima, per (almeno) quattro diversi motivi.
Il primo è aver recuperato un’atmosfera più realistica, più urbana, che due anni fa si era un po’ persa via in uno sviluppo leggermente più fantasy, e che ora invece torna con tutta la forza di generi che solo saltuariamente contaminano il fumetto supereroistico americano: il poliziesco, il thriller, il noir. Se c’era una cosa che ci piaceva della prima stagione di Daredevil era la sua netta distanza con l’estetica colorata degli Avengers, e non perché abbiamo qualcosa contro gli Avengers, anzi, ma perché è giusto che i prodotti collaterali cerchino una loro anima e una loro fisionomia (che peraltro avevano anche Iron Fist e soprattutto Luke Cage, funestati però da altri problemi).
Il secondo motivo, dipendente dal primo, è il ritorno a uno scavo psicologico capillare, a volte perfino eccessivo, ma saldo e coerente nel raccontare sia le turbe del protagonista, eroe complessato e diviso, in perenne ricerca di un’identità che possa coniugare Matt e Devil, avvocato e vigilante, sia quelle dei personaggi di contorno, che spesso di contorno non sono e riescono a prendersi il centro della scena, come nel caso dell’episodio tutto dedicato alla giovinezza di Karen.
Il terzo motivo riguarda il come quello stile e quel mood sono messi in scena. Daredevil è una serie plumbea, cupissima, in cui regia e fotografia riflettono quell’atmosfera con ambienti grigi e poco illuminati, cappelle sotterranee trasformante in alloggi di fortuna, prigioni vere e appartamenti lussuosi ma freddi che sono anch’essi prigioni metaforiche. Allo stesso tempo, però, è anche una serie capace di improvvise esplosioni di energia, di lunghi piani sequenza splendidamente coreografati in cui l’estetica dell’effetto speciale computerizzato lascia spazio alla fatica dei corpi di carne e ossa, che corrono, saltano, cadono e si rialzano con eroismo deliziosamente umano.
E in ultimo, ma non per importanza, ci sono i cattivi: se nella seconda stagione c’erano molti buoni e mezzi buoni (Punitore, Elettra) ma cattivi troppo rarefatti e impersonali (la Mano), la terza recupera il carisma debordante di Fisk/D’Onofrio, e ci aggiunge un Bullseye che, rispetto alla versione fumettistica tutta schizofrenia e agitazione, viene modellato su un personaggio più rotondo, che ancora Bullseye non lo è diventato, ma che finisce col mettere le sue abilità straordinarie al servizio di un Lato Oscuro di cui Fisk è unico burattinaio. Un modo di agire e stare in scena, quello di Fisk, che ancora una volta rifugge le spettacolari ma ripetitive scazzottate fra “super”, preferendo soffocare Daredevil in una rete autenticamente criminale, dove la forza e la determinazione dell’eroe si scontrano con una struttura così organizzata, da essere fisicamente immune ai pugni, perché per distruggerla a cazzotti bisognerebbe menare metà della popolazione di Hell’s Kitchen.

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Paradossalmente, è però proprio Fisk a rappresentare un ulteriore elemento discordante. La stagione è densa, impegnata, ricca di spunti, e Fisk merita sempre di stare sulla scena perché aggiunge costantemente qualcosa di interessante al discorso, costringendo Matt Murdock a una continua ricerca su se stesso che è il cuore di questo ciclo di episodi. Allo stesso tempo, però (ho detto sedici volte “allo stesso tempo in sto articolo), si ha anche l’impressione che rimettere Fisk al comando dei cattivi sia stata una scelta di comodo. Un ritorno alle origini, se così possiamo chiamarlo, che può far felici tutti perché come si fa a non essere felici guardando Vincent D’Onofrio in quei panni?, ma che comunque non riesce ad aggiungere nulla alla mitologia più complessiva del Daredevil di Netflix.

Matt aveva combattuto e sconfitto Fisk nella prima stagione, Matt combatte e sconfigge Fisk nella terza. Certo, in mezzo c’è tanta roba, Bullseye spacca quasi sempre, e in fondo anche nei fumetti gli eroi affrontano ciclicamente sempre gli stessi avversari. Ma se uniamo questa potenziale ripetizione alla chiusura verso l’esterno di cui parlavamo all’inizio, ecco che la terza stagione di Daredevil, più che un nuovo mattone di un castello ampio e variegato, sembra una graphic novel tanto bella quanto finita in se stessa. Che non è comunque un male quando ti vuoi vedere tredici episodi scritti e girati come Dio comanda, ma ti lascia un po’ di amaro in bocca quando, complice anche la cancellazione di altre due serie collegate, ti sembra che l’universo, più che espandersi, si stia rimpicciolendo. E se la stagione non si fosse conclusa sull’occhio di Bullseye, ma sulla rinnovata amicizia Matt-Karen-Foggy, si poteva avere l’impressione di un series finale. E ai serialminder i series finale fanno paura, specie quando non sono dichiarati.

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