2 Agosto 2019 10 commenti

Another Life – Netflix ingaggia Katee Sackhoff, ma Battlestar Galactica era un’altra cosa… di Diego Castelli

La nuova serie fantascientifica della nota piattaforma streaming mette insieme un po’ di cliché con poca eleganza

Copertina, Pilot

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Sono un uomo semplice, e ogni volta che vedo Katee Sackhoff sorrido. Merito dei cinque fantastici anni di Battlestar Galactica, in cui la Sackhoff, nei panni della mitica Kara “Starbuck” Thrace, era la stella (o meglio, una delle stelle) di una delle migliori serie fantascientifiche che l’umanità tutta ricordi.

Una serie che, però, negli anni è rimasta l’unica perla vera nella carriera dell’attrice, che fino a quel momento aveva partecipato saltuariamente ad altri show senza lasciare grossissimi segni, e che poi avrebbe proseguito una carriera dignitosa ma senza ulteriori picchi, dove la parte più rilevante, per lo meno in termini quantitativi, è stata quella di Vic Moretti in Longmire, poliziesco non brutto, ma nemmeno epocale.
Eppure, che sia per qualche episodio di The Flash o per le sue versioni digitali in Call of Duty, ogni volta che vedi Katee devi essere contento.

Inizialmente succede anche con Another Life, serie di Netflix che, giusto per solleticare ancora di più la nostalgia, rimette la nostra Katee su un’astronave, questa volta per farne una capitana (Niko Breckinridge) lanciata in una missione potenzialmente molto pericolosa: prendere contatto diretto con degli alieni che hanno mandato sulla Terra una specie di enorme manufatto (su cui indaga anche il marito di Niko, interpretato da Justin Chatwin), ma che ancora non hanno chiarito le proprie intenzioni. Il viaggio è pericoloso, pieno di sorprese, e lo sparuto equipaggio deve fare fronte anche a numerose faide interne, nate soprattutto a causa del fatto che Niko è stata imposta dall’alto su una truppa che riconosceva un altro capitano, Ian (Tyler Hoechlin).

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Non vi sarà sfuggito che la gioia nel rivedere una Katee Sackhoff sempre brava e sempre in forma (anche fisica) era minata da un “inizialmente”.
Sì perché Another Life, che pure ha la protagonista di Battlestar Galactica, è quanto di più lontano si possa immaginare dall’eleganza e dalla raffinatezza della serie di Sci-Fi.
I problemi emergono fin dall’inizio, dove ci si dimentica di essere in una serie tv e si pretende di accumulare un’enorme quantità di fatti e informazioni nei primissimi minuti di episodio, stordendo lo spettatore e lasciandolo con poca emozione, nonostante ci fossero in ballo questioni di un certo peso (il primo incontro con gli extraterrestri e via dicendo).
L’intento degli autori capitanati da Aaron Martin è quello di metterci il prima possibile sull’astronave capitanata da Niko, ma allora tanto valeva iniziare lì sopra e usare poi dei flash back, visto che l’alternativa è una specie di previously di una serie che però non c’è mai stata e alla quale non ci siamo mai appassionati.

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Una velocità che resta problematica anche nel resto del pilot, dove viene introdotta una decina di personaggi tutti potenzialmente importanti, che vengono sballottati dalle prime sorprese “grosse” già in finale di puntata, in un momento in cui, in termini emotivi, non siamo pronti a riceverle nel modo giusto.
Per reggere questa fame di eventi, la serie avrebbe bisogno di una scrittura pressoché perfetta, che purtroppo non ha, a partire da quella specie di mezzo monologo introduttivo recitato da una Selma Blair francamente imbarazzante e completamente fuori parte (dovrebbe fare la furba influencer del futuro e sembra al massimo un’ubriacona uscita da una telenovela). Le relazioni fra i personaggi non vengono “costruite”, bensì date per scontate, e si suppone che lo spettatore empatizzi con caratteri che ha appena conosciuto. Naturalmente non succede.

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Ci sono poi un tot di problemi tecnici: gli effetti speciali sono abbastanza imbarazzanti, e se non hai il budget per modellare un’astronave aliena credibile, sarebbe meglio inventarsi altro. Idem per la costruzione del mondo fantascientifico: piaccia o meno, quando scrivi una serie di fantascienza (a meno che non sia una parodia) non puoi fare a meno di un minimo di rigore, di un equilibrio spesso difficile ma non per questo meno importante fra il “fanta” e la “scienza”.  Another Life ci va invece giù allegrotta, mettendo insieme un po’ di temi classici del genere (il sonno criogenico, l’intelligenza artificiale, l’avvicinamento a sistemi stellari sconosciuti ecc) trattandoli con troppa faciloneria, come se certi nomi pseudoscientifici fossero sufficienti – nel 2019 – per far girare la testa a uno spettatore che però li ha già sentiti mille volte in contesti più rigorosi.

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L’esempio forse più evidente, perché pieno di una potenzialità mal sfruttata, è quello di William, l’IA che guida la nave (che si chiama “Salvare” e all’orecchio italiano fa un po’ ridere): William è un’intelligenza artificiale dotata di sentimenti e desideri, e la cosa viene detta esplicitamente da uno dei passeggeri. Il problema è che questo elemento, potenzialmente dirompente in un genere in cui le IA sono quasi sempre impersonali o, al massimo, destinate a una “umanità” molto successiva, viene dato per scontato come se fosse la cosa più banale del mondo, rivelandosi un mero escamotage per avere ancora un altro personaggio (come se gli altri non fossero già abbastanza).
Insomma, è una serie che qualche idea ce l’avrebbe pure, ma che se le gioca con modi e tempistiche sbagliate, creando un grosso marasma in cui alla fine non ci si appassiona a niente.

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Un pregio Another Life ce l’ha, e non è nemmeno un pregio da poco: gestisce bene i cliffhanger. Praticamente ogni episodio, anche quelli che ti fanno incazzare per certe vistose goffaggini, termina con una sorpresa o una sospensione molto furbe, che ti lasciano quasi sempre la voglia di vedere come si svilupperà la vicenda. Un pregio perfino sorprendente per una serie di Netflix che, lo sappiamo, spesso e volentieri se ne frega dei cliffhanger nell’ottica del binge watching, che però ne beneficia comunque (come mostrato per esempio ai tempi di You, che veniva della tv generalista e si era rifatta un nome su Netflix anche per via del suo ritmo incalzante).
Il problema è che non basta: una serie raffazzonata ma con dei buoni cliffhanger è prima di tutto uno show che ti fa incazzare a ogni episodio, ma che poi ti costringe a vedere quello successivo, solo per essere ri-deluso un’altra volta. Qualche anno fa ce lo saremmo fatti bastare, oggi mi sembra che ci sia in giro troppa roba meglio di questa per cascarci. Nonostante l’amore per Katee Sackhoff.
Perché seguire Another Life: per la buona gestione di sorprese e cliffhanger
Perché mollare Another Life: a parte quei trucchi un po’ furbi, è una serie per lo più goffa e poco rifinita.

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