1 Luglio 2021

Generazione 56K: la serie Netflix coi The Jackal è una chicca a sorpresa di Diego Castelli

Ci aspettavamo una cosa, ne è arrivata un’altra, ma alla fine da Generazione 56K usciamo col sorriso sulle labbra

Pilot

Qualche settimana fa, quando ancora la serie doveva arrivare e forse non era nemmeno uscito il primo trailer, io e il Villa stavamo parlando di Generazione 56K e il socio mi confessa: “A me fa una paura…”
Perché paura? Beh è presto detto.
La nuova serie Netflix nasce da una collaborazione fra la casa di produzione Cattleya e il gruppo comico dei The Jackal, che compare sia dietro la macchina da presa (creatore, regista e co-sceneggiatore della serie è Francesco Ebbasta, che dei The Jackal è uno dei fondatori), sia davanti, con la presenza nel cast di Fabio Balsamo e Gianluca Colucci (in arte “Fru”), che abbiamo visto di recente fra i concorrenti di LOL – Chi ride è fuori su Prime Video.
I The Jackal li adoriamo ormai da anni, sono fra i comici più efficaci e intelligenti dell’attuale panorama italiano, ma li conosciamo soprattutto all’interno di certi formati e certe durate, e il non brillantissimo successo del loro film del 2017 AFMV – Addio fottuti musi verdi faceva pensare che, forse, tirati fuori dal loro orticello potessero essere meno ficcanti. Se a questo uniamo la storia non esattamente felice delle serie italiane su Netflix (son più quelle orrende di quelle che si salvano), ecco spiegati timori del Villa per l’arrivo di un prodotto che avrebbe anche potuto “sporcare” l’affetto che abbiamo per il gruppo.

La buona, anzi ottima, notizia è che Generazione 56K non solo non sporca niente, ma in realtà non pone neanche il problema, perché quella di “serie dei The Jackal”, o “coi The Jackal”, era un’etichetta molto facile da piazzare in fase di avvicinamento, ma a conti fatti si rivela un equivoco facilmente risolto.
Generazione 56K non è un prodotto derivativo della fama e degli strumenti comici dei The Jackal, è semplicemente un prodotto che nasce (anche) da quelle persone, ma che poi ha una sua identità molto precisa che prescinde completamente dal lavoro comico del gruppo.
Anche perché, se vogliamo proprio guardare, Generazione 56K non è nemmeno una serie “comica”, è invece una commedia romantica senza se e senza ma, a cui va aggiunto uno degli ingredienti fondamentali di questi anni: la nostalgia.

Il titolo dello show, che ovviamente stuzzica chi da giovane ha navigato su internet con i vecchi modem che si connettevano alla rete con i familiari squittii tecnologici e consentivano poi di scaricare con grande gioia e spaventosa lentezza foto di tette e culi (no ok, servivano anche ad altro, ma ai ragazzini interessava quello), suggerisce l’elemento più vistoso della messa in scena: un continuo rimpallo fra il presente del 2021 e l’ormai lontano 1998, entrambi ambientati per gran parte sull’isola di Procida, dove a quel tempo internet ce l’aveva praticamente solo la famiglia del protagonista Daniel.
A essere raccontate sono le vicende di un gruppo di personaggi che all’epoca erano bambini sognanti in attesa di fare le prime esperienze importanti della vita, e che ora sono adulti impegnati con il lavoro, la famiglia, e la ricerca di un amore vero che ancora non arriva.
Fra questi troviamo per l’appunto Daniel (Angelo Spagnoletti) con gli amici di sempre Sandro (Fabio Balsamo) e Luca (Gianluca Colucci), mentre sul versante femminile ci sono Matilda (Cristina Cappelli) e Ines (Claudia Tranchese).
Fra l’altro questo è un momento buono come un altro per sottolineare come il fuoco della nostalgia stia inevitabilmente cominciando a spostarsi: abbiamo passato un decennio a ricordare, omaggiare e rimpiangere gli anni Ottanta, e ora cominciamo coi Novanta. Immagino che nel 2040 si faranno serie e film i cui protagonisti ricorderanno con nostalgia i tempi in cui per mandare un messaggio, invece di usare l’impianto neurale di Elon Musk, bisognava pigiare fisicamente lo schermo di uno smartphone.
Ahhh, quanti ricordi…

Come detto, Generazione 56K è soprattutto una commedia romantica con protagonisti Daniel e Matilda, e si può anche identificare un momento preciso in cui ci rendiamo conto che quello che stiamo guardando non è una semplice versione seriale della comicità dei The Jackal.
Al loro primo appuntamento, su cui spoilero volutamente il meno possibile, Cristina Cappelli, interprete di Matilda, azzecca alla perfezione alcuni sguardi di un romanticismo debordante. L’incontro avviene con la mediazione di una dating app, io sull’argomento ho qualche esperienza, e posso dirvi che è un po’ il sogno di tutti quello di essere guardati come Matilda guarda Daniel in quella scena. Ed è proprio in quel momento, quindi, che da spettatori proviamo delle sensazioni che non ci saremmo aspettati di incontrare guardando una serie che credevamo puramente comica. In quell’istante, capiamo che siamo di fronte a qualcosa di riconoscibile (la commedia romantica non è esattamente un genere nuovo) ma allo stesso tempo sorprendente per il modo in cui ci siamo arrivati.
Visto che abbiamo citato proprio quella scena, vale la pena dire qui che Cristina Cappelli è, dal punto di vista degli interpreti, la sorpresa più gradita della serie: ok è bella, e va bene, ma è soprattutto capace di dare vita a un personaggio di una freschezza ed espressività totali, di cui ci si innamora dopo pochi istanti, per poi non mollarla più.
Cappelli ha alle spalle la sua buona gavetta fatta di cortometraggi e altri piccole produzioni e partecipazioni, ma è alla sua prima esperienza in una produzione così grossa, e io credo che sentiremo parlare parecchio di lei nel prossimo futuro (se non accadrà, non è perché non se lo merita, ma perché viviamo in un mondo misterioso e multiforme).
Del personaggio di Matilda ha senso parlare anche per un’altra questione, ma qui finiremmo proprio negli spoiler e ve la scrivo alla fine.
Ecco, non so dire se Angelo Spagnoletti, nella parte di Daniel, scateni le stesse sensazioni. Lo lascio decidere alle persone fra voi che prediligono la compagnia maschile, però insomma, diciamo che i due insieme funzionano benissimo.

Ad ogni modo, non è solo questione di uno sguardo qui e una battuta là. Generazione 56K è scritta e girata bene, con in testa un’idea precisa di atmosfera e sviluppo, senza momenti morti, e con un’ottima gestione del parallelo fra i due piani temporali.
Come potete probabilmente immaginare, una serie giocata su due decenni diversi non può che costruire un gioco di continui rimandi incrociati, mostrandoci due storie raccontate in contemporanea che hanno un loro preciso sviluppo “singolo”, ma che mantengono un costante collegamento reciproco, nell’ottica di fornire a chi guarda il senso di molti cerchi che si aprono e si chiudono.
Ci sono poi alcune scene specifiche in cui regia e montaggio accelerano il parallelismo alternando molto più rapidamente le inquadrature riferite ai due diversi momenti, e la tecnica funziona nella misura in cui potenzia l’emozione di storie che sappiamo affondare le radici in un passato molto profondo. Magari non si arriva all’eleganza di This Is Us, però non ci può lamentare, suvvia.
In termini di atmosfera si potrebbe fare qualche confronto con Summertime, l’altra serie di Netflix prodotta da Cattleya e anch’essa legata ai temi della nostalgia e del sapore delle cose che furono, in quel caso riferite alla Riviera Romagnola. Punti di contatto ce ne sono diversi, ma mentre Summertime era riuscita a stupire soprattutto con la sua luce e i suoi colori, Generazione 56K mi sembra scritta in modo più efficace e recitata meglio (anche perché gli interpreti sono più grandi). Però insomma, Netflix farebbe bene a tenersi amica Cattleya ancora un po’.

Tutto oro quello che luccica? No dai, nessuno è perfetto.
Ho poco da dire a Generazione 56K sul piano visivo, fa quello che deve fare e lo fa bene. Sul piano della scrittura, che va certamente elogiata per le cose dette prima e anche per quello che diremo in fondo, si può però questionare quello che potremmo definire un eccesso di zelo, che poi rimanda almeno in parte a certi difetti storici della fiction italiana.
Da una parte l’eccessivo didascalismo di alcune scene. Accanto ai dialoghi divertenti o romantici che funzionano benissimo, qui e là ce ne sono altri in cui la fretta di fornire determinate informazioni allo spettatore rende lo scambio troppo telefonato e irrealisticamente “denso” di nozioni che in teoria in personaggi non avrebbero bisogno di dirsi in quel modo, considerando il loro rapporto.
Similmente, la serie è costruita come un puzzle in cui tanti pezzi, presto o tardi, trovano il loro posto, solo che a volte lo fanno in modo troppo preciso: il paradosso è quello di una sceneggiatura che fa succedere molte cose “per caso”, ma le fa succedere in modo così conveniente per la trama da rivelare in maniera troppo palese il fatto che non sono a caso per nulla.
A ben guardare, entrambi i difetti appartengono alla stessa specie, quella di una sceneggiatura che si fa notare un po’ troppo in quanto tale.
Tengo comunque a precisare che si tratta di imprecisioni (mi si perdoni il gioco di parole) che poco tolgono alla forza di un racconto che nel complesso funziona e gronda tenerezza da tutti i pori. Alla fin fine possiamo anche catalogarle sotto la categoria filosofica dei “massì, chissene”.
Poi oh, potrebbe anche esserci “IL” difetto, cioè che il fatto che Generazione 56K sia per l’appunto una commedia romantica che vuole divertire e intrattenere, senza fare chissà quale rivoluzione comica. Se pretendevate quello, rimarrete delusi, ma sapete che io sono sempre restio a imputare a una serie la mancanza di cose che volevamo noi, ma che evidentemente non voleva lei. Tanto per capirci, sarebbe come lamentarsi di Game of Thrones perché non ci sono abbastanza astronavi.

Insomma, sono rimasto contento. Pensavamo che Generazione 56K fosse una certa cosa, e avevamo paura che non sarebbe venuta bene. Poi abbiamo scoperto che in realtà non era quella cosa lì, ma un’altra, e ci siamo stupiti nello scoprire che ci andava comunque benissimo. Netflix sembra avere definitivamente capito come fare (o a chi far fare) commedie romantiche che funzionino, e non possiamo che rallegrarci. Ora aspettiamo con ansia la prima serie italiana decente in ambito fantasy/mystery ecc ecc. Vedremo quando arriverà.
Chiudo con i soliti perché seguirla / perché mollarla, ma la recensione non finisce: più sotto vi scrivo quella considerazione spoilerosa che ci tengo a inserire anche se la serie è uscita da tipo 4 ore. Leggetevela quando volete.

Perché seguire Generazione 56K: temevamo la poracciata comica, e invece è una commedia romantica ben scritta, ben diretta e ben interpretata, che ti lascia col cuoricione grosso così.
Perché mollare Generazione 56K: se effettivamente volevate una versione a serie tv della comicità dei The Jackal, sappiate che Generazione 56K segue esplicitamente un percorso diverso.

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OK ARRIVANO GLI SPOILER.

PROSEGUITE A VOSTRO RISCHIO E PERICOLO.
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Di per sé, dire che alla fine Daniel e Matilda riescono a quagliare non sarebbe nemmeno questo grande spoiler, ce lo si aspetta già dal trailer e anzi si sa che se non quaglieranno ci rimarremo male.
C’è però una sfumatura importante che riguarda proprio il personaggio di Matilda.
Daniel è un ragazzotto da sempre innamorato dell’amore, che alla fine lo trova nella ragazza che mai si sarebbe aspettato, e va bene, tutto sommato già visto.
Matilda invece stava per sposarsi con un ragazzo perfetto (già di per sé cosa non scontata in termini di scrittura), e alla fine non solo fa saltare il matrimonio per il suo amore di gioventù, ma in realtà parte anche per Parigi dove potrà seguire un corso che le servirà per la sua professione di restauratrice. Non che lei e Daniel non si mettano insieme, visto che Daniel si dice subito pronto a volare regolarmente da Napoli a Parigi, ma il tema è che Matilda non trova il nuovo capitolo della sua vita (un capitolo che nemmeno lei sapeva di desiderare) nella semplice sostituzione di un uomo con un altro, bensì nella comprensione di avere bisogno di tempo e progetti per sé.
Questo dettaglio non rappresenta il cuore della serie ma, insieme allo spostamento della nostalgia verso gli anni Novanta di cui ci dicevamo prima, rappresenta un ulteriore elemento di modernità dello show. L’intento è mostrare la possibilità di coniugare certe meccaniche classiche del racconto romantico con precise prese di coscienza della contemporaneità che mostrano come, anche e soprattutto per le donne, l’amore possa essere la chiave per un arricchimento personale e per la felicità, ma non per questo l’UNICO obiettivo di una persona, che può ancora decidere di partirsene per Parigi per fare una cosa che interesse a lei e a lei sola.
Il mondo si cambia anche così.



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