18 Ottobre 2022

The Rings of Power – Il finale semi-dignitoso di una stagione deludente di Diego Castelli

La prima stagione di Rings of Power non ha rispettato le aspettative, anzi

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ATTENZIONE! SPOILER SU TUTTA LA PRIMA STAGIONE DI LORD OF THE RINGS: THE RINGS OF POWER

Ed eccoci qui. Sono passate un po’ di settimane da quella iniziale anteprima su The Lord of The Rings: The Rings of Power, ora siamo tutti in pari con l’intera prima stagione, ed è il momento di trarre delle somme conclusive, sapendo che non sarà un’operazione semplice.
O meglio, credo sia semplicissima. Diciamo però che non sarà “pacifica”, nella misura in cui la serie di Prime Video, ambientata nel maggggico mondo di J. R. R. Tolkien, ha diviso moltissimo spettatori e critica, e la polarizzazione ha raggiunto un livello particolarmente alto anche per il mondo già abbastanza divisivo delle serie tv.

Come sapete, io solitamente sono quello accomodante della coppia, e vedrete che anche in questa recensione cercherò di tenere conto di tutti i punti di vista.
Allo stesso tempo, non posso nemmeno fingere che la mezza delusione provata con i primi due episodi (non stiamo a ripetere, trovate tutto a questo link) non sia stata stata confermata e addirittura potenziata da quelli successivi, fino a un finale che in qualche modo è riuscito a trovare una mezza quadra, almeno su alcune questioni, non cancellando però il giudizio complessivo: la prima stagione di Rings of Power è una poderosa delusione, e ora proviamo a ricostruire il perché.

Agli episodi iniziali avevamo riconosciuto una grande forza visiva, figlia dell’enorme budget stanziato per la realizzazione della serie, ma avevamo anche sottolineato una scarsa capacità di appassionare fin da subito, un problema che poteva essere mascherato o giustificato con l’idea di due episodi molto “preparatori”, ma che lasciava in bocca l’amaro di due ore molto ricche, ma sostanzialmente noiosette.

La situazione non è migliorata con le puntate successive, in cui non succedeva praticamente niente di rilevante, e in cui le relazioni fra i vari personaggi venivano sviluppate in modo potenzialmente interessante (penso soprattutto a Elrond-Durin, o ai palopiedi e lo Straniero), ma con passi avanti sempre lenti e misurati, senza che si avesse mai la sensazione di un vero progresso.

Sicuramente non aiutata dalla compresenza sui nostri palinsesti mentali di un’altra serie fantasy in cui a ogni puntata succedeva di tutto, Rings of Power procedeva col suo passo aulico, beandosi della sua bellezza, guardando le altre serie con un certo sprezzo da “lei non sa chi sono io”, risultando però semplicemente poco interessante, con personaggi abbastanza piatti e monodimensionali, senza particolari guizzi creativi, con una protagonista antipaticissima e dotata di una sola espressione (parlo ovviamente di Galadriel), e in definitiva con nessuna emozione.

Ero già deluso, ma ancora non sapevo cosa stava per arrivare.

Gli episodi sei e sette sono stati uno sfacelo.
Se le puntate precedenti erano semplicemente piatte e senza nerbo, la sesta (che nell’opinione degli autori era quella della svolta, delle battaglie, dei grandi riferimenti alla tradizione tolkeniana) è stata un tale, ridicolo guazzabuglio di errori e facilonerie, da far perdere qualunque fiducia nella capacità di Rings of Power di regalare ciò che effettivamente aveva promesso.

Qui mi fermo un attimo per aprire una parentesi.
Perché io lo so, davvero, lo so, quanto può essere fastidiosa una persona che, di fronte a qualcosa che ti è piaciuto e che ti ha dato emozione, viene a dirti “sì però questa cosa è sbagliata, questo non c’entra, gne gne gne”.
Contemporaneamente, sappiamo come Rings of Power abbia generato due accuse diverse e speculari: da una parte l’accusa di essere dei nerd incattiviti che avevano già deciso di disprezzare la serie, impegnandosi per questo a trovare ogni minimo difetto e ingigantirlo (accusa formulata, ovviamente, dagli estimatori del prodotto); dall’altra, l’accusa di aver voluto cavalcare un’onda di hype completamente artificiale e non adeguatamente supportata dalla qualità della serie (accusa formulata, chiaramente, dai detrattori).

Ora, è ovvio che se si appartiene a uno dei due gruppi, se cioè non si ammette la possibilità che i pareri e le sensazioni di chi non la pensa come noi possano essere genuini, ogni discussione muore prima ancora di cominciare.
Io oggi incarno la parte del detrattore, e spero mi darete credito quando dico che le mie opinioni sono effettivamente oneste, anche se magari diverse dalle vostre.

Ma dato per scontato questo, c’è poi il tema effettivo del peso dei difetti.
In termini di messa in scena, scrittura, coerenza interna delle storie (e senza citare minimamente il rapporto con il materiale originale, che come detto nell’altro articolo mi interessa solo in alcune accezioni), non esiste prodotto cinematografico o seriale che, se messo sotto una lente abbastanza potente, non mostri il fianco a qualche debolezza, forzatura, inverosimiglianza.

Allo stesso tempo, però, da qualche parte esiste un confine (sfumato e soggettivo finché volete) oltre il quale anche la sospensione di incredulità si spezza, e la tua capacità di farti coinvolgere da una storia viene irrimediabilmente rovinata dai continui inciampi di quello stesso racconto.
In questo senso, l’ambizioso sesto episodio, quello della nascita del Monte Fato, ma anche quello successivo in cui non succede granché, sono dolorosamente terrificanti.

Se avete seguito i serial moments o i nostri podcast in queste settimane, già sapete di che parlo, e non vorrei riscrivere esattamente le stesse cose.
Provando a guardarle da una prospettiva più strutturale, possiamo dire che in quei due episodi Rings of Power non azzecca quasi niente.

Ci sono grossi e pacchiani errori di raccordo in termini di regia e montaggio. Mi riferisco in particolare alla pessima gestione del ciclo-giorno notte all’arrivo delle navi di Numenor, ma anche all’inseguimento di Adar, in cui Galadriel sparisce misteriosamente dal galoppo giusto il tempo di consentire ad Halbrand di trovarsi con la spada puntata alla gola dell’elfo corrotto (fra l’altro, a posteriori: ma se Halbrand è Sauron e Adar è suo acerrimo nemico, perché non l’ha ucciso in quel momento? Ma vabbè, diciamo che faceva parte di un piano più grande, cerchiamo di essere generosi).

Ci sono errori di coerenza interna, che nulla c’entra con il rapporto con Tolkien, ma è invece la base di ogni buona costruzione narrativa: se i pelopiedi dicono per vari episodi che lasciano indietro chi non riesce a stare attaccato al gruppo, con che coraggio viene poi detto, nel settimo episodio, che la loro forza è quella di stare uniti? Se le navi di Nùmenor sono appena arrivate nell’enorme Terra di Mezzo, un luogo in cui i numenoreani non mettevano piede da secoli, com’è che appena scesi dalle navi cavalcano come pazzi verso un piccolo villaggetto di cui teoricamente non conoscono nemmeno l’ubicazione?

Più in generale, ci sono enormi problemi di scrittura che rimandano quasi sempre a un unico, identico peccato originale, cioè la volontà di creare delle scene madri “a prescindere”, che vengono piazzate nella narrazione senza preoccuparsi dalla loro plausibilità rispetto a quanto visto nei minuti precedenti.
A questa categoria appartengono per esempio l’idiozia di Galadriel e Arondir che non controllano il contenuto dell’involto rubato ad Adar, oppure tutta la gestione del personaggio di Theo, costretto dagli sceneggiatori a subire una serie di “momenti di crescita” estremamente forzati, come quando gli viene chiesto di cauterizzare la ferita della madre anche se non era assolutamente necessario che se ne occupasse lui, o come quando gli viene affidata l’importantissima spada-chiave, anche se lui aveva appena detto di essere dipendente dal suo potere oscuro.
(Fra parentesi, lasciare questo gruppo di personaggi completamente fuori dall’episodio finale ha proprio trasmesso il senso di “sono quelli di cui vi deve fregare di meno”)

Dulcis in fundo (e quelle citate sono solo alcune delle molte ridicolaggini viste in quei due episodi), arrivano poi alcune semplicissime cadute di stile, scelte magari minoritarie nel complesso della serie, ma che comunque fanno cadere le braccia perché del tutto slegate dal contesto o perché, uso un termine tecnico, sostanzialmente brutte.
Penso per esempio ad Arondir che si mette a combattere con uno stile (una mezza capoeira) che nulla a che fare con gli elfi né prima né dopo quella scena, oppure all’orribile, terrificante scritta “Southland” che diventa “Mordor”, una poracciata senza fine che sembra fatta da uno stagista diciannovenne con paint.
Poi volendo c’è anche bat-strega.

Arrivati alla fine del settimo episodio, avevamo il fiatone. Troppa, troppa delusione, da praticamente ogni punto di vista, per affrontare con animo sereno un finale che sembrava destinato alla catastrofe più totale.
Sarà forse per questo, per delle aspettative completamente azzerate rispetto al resto della stagione, che poi alla fine l’ultimo episodio è riuscito a piazzare qualche guizzo, sia visivo che in termini di scrittura.

Oddio, non che non ci siano anche qui delle magagne inspiegabili.
Vogliamo parlare della totale stupidità di quelle tre mezze streghe fluide, la cui unica funzione narrativa è stata quella di sbagliare a riconoscere Sauron, contribuendo al risveglio definitivo dello Straniero, rivelatosi un Istar, e forse addirittura il famoso Gandalf? (Nella tradizione tolkeniana gli Istar sono solo cinque, e molte cose di questo episodio, compresa la citazione cinematografica in cui si consiglia agli hobbit di seguire il proprio naso, farebbero pensare effettivamente a Gandalf, ma su questo punto resta ancora del mistero).
Anche la morte di Sadoc mi è sembrata tanto prevedibile quando poco emozionante, con il vecchio colpito al fianco che decide che per lui non c’è più niente da fare, e insieme ad amici e parenti aspetta di morire guardando l’alba, senza che nessuno provi a dirgli “guarda che magari con due unguenti e una foglia la risolviamo”. Ma suppongo che nessuno fra i pelopiedi avesse mai visto ER o Grey’s Anatomy.

Nonostante questo, la notizia per me è, come accennato, che in questo episodio ci siano effettivamente cose interessanti.
Certo, possiamo discutere su quanto avesse senso trasformare Il Signore degli Anelli in un mistero sull’identità di uno due personaggi (decisamente poco tolkeniana questa cosa, ma decidete voi quanto volete essere intransigenti), e possiamo discutere anche di più su quanto la cosa sia stata resa decentemente: il fatto che un re del Sud non esistesse da mille anni (come scoperto da Galadriel) rende abbastanza assurda la facilità con cui le genti del Sud avevano accettato il suo arrivo senza nemmeno fare una verifichina.
Ugualmente, non appena lo Straniero era comparso, tutti avevano detto subito “è Gandalf”. Il fatto che alla fine lo sia, e che per sviarci vengano usati solo venti minuti di streghette poco sagge, non è che sia esattamente questa ideona.

Eppure, nonostante tutto questo, proprio il fatto che Halbrand si sia infiltrato fra i suoi teorici nemici aggiunge un elemento di profondità che finora era mancato.
Tradizionalmente, Sauron non è solo un grosso cattivone che mena, è un ingannatore, uno stregone, un essere diabolico a più livelli. Soprattutto, sappiamo che la stessa forgiatura degli anelli (sti benedetti anelli del potere che si sono visti solo nell’ultima inquadratura della prima stagione) ha sempre fatto parte di un piano che serviva a Sauron per dividere i suoi avversari, piuttosto che unirli, e per sfruttare le abilità degli elfi per raggiungere nuove vette di potere.
E in fondo quello che si vedrà poi ne Il Signore degli Anelli è proprio questo, cioè la capacità di molte razze diverse e tradizionalmente sospettose (uomini, nani, elfi, hobbit) di superare le proprie divergenze contro un nemico comune, che fallirà proprio nel proposito di combattere eserciti rigorosamente divisi.

Il fatto quindi che Halbrand-Sauron manipoli la sete di vendetta di Galadriel o la vanità di Celebrimbor, per spingerli alla creazione di un potere “oltre la carne” che finirà con il corromperli, è una scelta abbastanza rispettosa della tradizione ma anche, e soprattutto, capace di dare un senso a diversi elementi (comprese alcune rigidità) che avevamo visto fino a quel momento.
Poi certo, continuiamo a non poter avere tutto, non sia mai: così, per esempio, è vero che pure in Tolkien Sauron arrivava sotto mentite spoglie a manipolare gli orafi elfici, ma in Rings of Power vediamo un elfo millenario e di rinomata abilità come Celebrimbor, che in tempo zero si fa dare un suggerimento metallurgico francamente banalissimo dal primo tizio che passa di lì. Ancora una volta, più che il cosa, conterebbe il “come”.

In questo episodio ho visto anche qualche scatto in avanti sul piano visivo, che andasse oltre la semplice rappresentazione pittorica di qualche bel paesaggio fantasy.
Per esempio, bella la sequenza onirica in cui Galadriel e Halbrand tornano sulla zattera, e in cui un elegante movimento di macchina ci mostra il riflesso dell’uomo che si tramuta nell’ombra di Sauron, accompagnato da quella che in quell’immagine pare una specie di moglie demoniaca.
Così come ben gestito è il momento in cui il coltello di Galadriel, eredità del fratello ucciso, diventa l’unica valida risorsa di pregiati metalli di Valinor per la forgiatura degli anelli: la fusione dell’arma suona come un passaggio verso l’oscurità, il sacrificio di qualcosa di buono per la sua trasformazione in qualcosa di potente, sì, ma pericoloso, un po’ come successo alla stessa sete di giustizia di Galadriel, che alla fine l’ha accecata oltre misura.

Basta questo per risollevare la stagione?
Spiace, ma no.
Volendo chiudere con uno sguardo più complessivo, il problema vero è che Rings of Power è risultata semplicemente troppo poco.
La serie più costosa di sempre, tratta dal materiale fantasy più famoso di sempre, e alla fine quello che ci siamo trovati fra le mani è una manciata di episodi molto lunghi, in cui non succede granché e dove spesso si notano errori grossolani, non degni di una produzione di questo livello e del nome che si porta dietro.
Il Monte Fato ha partorito un topolino, se mi permettete la battuta.

Da questo punto di vista, quegli errori grossolani non sono nemmeno il vero problema, e forse (dico forse) sarebbero stati meno visibili se tutto intorno avessero avuto un’epica realmente funzionante, che invece non c’è. Non ci si appassiona, non si vivono le difficoltà dei personaggi, non si percepisce il senso del grandioso, non c’è stupore, non c’è meraviglia. E lo so che per qualcuno/a di voi non è così, perché ci sarà chi si è commosso alla partenza di Nori insieme a forse-Gandalf, o chi ha fatto il saltone alla rivelazione della vera identità di Halbrand.
Ma se guardate la pulizia, la precisione, il calore delle serie che funzionano per davvero (il drama di This Is Us, il thriller sopito di Better Call Saul, la soap violenta e brutale di House of The Dragon), Rings of Power è semplicemente inesistente, scolastica, banalissima, vista e stravista.

Il che non significa che non funzioni “niente”. Perché a parte la già citata ricchezza visiva, potremmo anche dirci che i nani sono i personaggi migliori della serie, che Markella Kavenagh è un’ottima interprete di Nori, fosse anche solo per gli occhioni che si ritrova, che qui e là, a cercarli, sprazzi di grandezza o per lo meno promesse di vera potenza ci sono pure, ma poco.
Troppo, troppo poco.

Ed è solo qui che, per quanto mi riguarda, ha senso parlare davvero del rapporto con il materiale originale di Tolkien.
Rings of Power ha apportato molti cambiamenti, soprattutto in termini di compressione temporale delle vicende, più altre cose più o meno macroscopiche (tipo la sparizione del marito di Galadriel).
Soprattutto, ha cambiato anche l’approccio alla narrazione, perché se l’interesse principale per la storia diventa capire “chi è Sauron”, come se stessimo guardando un thrillerino crime, beh, siamo lontani anni luce dal modo di raccontare dell’autore originale.

A tutte queste cose sarebbe possibile e forse perfino sano passare sopra, a patto però che i cambiamenti abbiano un senso. Se tu cambi quella storia per esigenze cinematografiche, ma il prodotto finito è talmente enorme (in tutti i sensi) da farmi arrivare ai titoli di coda con gli occhi e le orecchie piene di meraviglia, io di quei cambiamenti me ne frego, te li difendo perfino. Che poi è esattamente quello che è successo con la trilogia di Peter Jackson.
Se invece i tuoi indispensabili cambiamenti servono a costruire una storia poco appassionante, piena di buchi e spesso incoerente al suo interno, non possiamo fare a meno di chiederti chi te l’ha fatto fare.

La seconda stagione di Rings of Power è già in lavorazione, e potete stare certi che ci si arriverà a tifoserie divise tanto quanto oggi. Non solo, io questa serie me la guarderò tutta, a prescindere dal numero di episodi e di stagioni, perché Amazon ha giustamente capito che mettere le mani su un brand di questo tipo ti garantisce un seguito non dico immutabile, ma certamente più solido e resistente di molte altre serie (paradossalmente, la abbandoneranno con più facilità le persone che di Tolkien non sanno niente, proprio perché meno legate, nel bene o nel male, a una tradizione vecchia quasi un secolo).
Ma sarò la tua croce e delizia, caro Jeff, perché se le prossime stagioni saranno come questa, ci troverai sempre qui a rompere le balle, Gandalf o no.

(PS Ho come l’impressione che a Jeff Bezos possa fregare pochino dell’opinione di Diego Castelli, però ehi, già è una vita complicata, se non ci si può manco sfogare un po’…)



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