7 Febbraio 2011 11 commenti

Being Human: versione inglese e versione americana di Marco Villa

Un vampiro, un licantropo, un fantasma. E non è l’inizio di una barzelletta.

Brit, Copertina, On Air

Un post per una serie che in realtà sono due e sono quattro stagioni ovvero tre più una.
Non so se mi sono spiegato (ne dubito), ma il succo del discorso è che oggi Serial Minds vi offre un pacchetto di informazione, approfondimento e ilarità che neanche 60 Minutes.
Perdonerete, mi auguro, la lunghezza spropositata di questo post.

Si parla di Being Human, ovvero di uno dei prodotti più belli apparsi sugli schermi inglesi negli ultimi anni. La serie, creata dall’attore e autore Toby Whithouse, va in onda su BBC Three dal 2009 e il 23 gennaio è iniziata la terza stagione. Tutto ruota intorno a un appartamento di Bristol, in cui convivono un fantasma, un vampiro e un lupo mannaro. Punto. Dici poco.

Il concept è insieme spiazzante e geniale. Spiazzante perché chiede uno sforzo non da poco allo spettatore: non solo quello classico di accettare l’esistenza del soprannaturale, ma anche quello di voler comprendere tre mondi diversi, i meccanismi che li regolano e le loro interazioni. Geniale perché queste possibili complicazioni narrative vengono risolte mandando tutto in vacca, ovvero giocando ogni cosa sull’umorismo, a tratti apertamente sul comico. A permettere questo è il personaggio del fantasma (incapace di fare paura) e soprattutto il licantropo George.
Interpretato da un gigantesco Russel Tovey (già visto su Serial Minds in Him & Her), George è il tipico sfigato di buon cuore, che si trova a dover gestire trasformazioni radicali di una cosa con la quale fatica a rapportarsi, ovvero il proprio corpo. Così, grazie a George e al continuo abbassamento dei toni dato dall’umorismo, le prime due stagioni possono permettersi di alzare sempre più il livello di assurdità senza mai esagerare e anche la terza stagione si apre su questi binari.

Intanto, è partita sul canale Syfy anche la versione statunitense. Terzo remake angloamericano di questo inizio 2011, dopo le esperienze in chiaroscuro di Shameless e Skins. A differenza di questi due titoli, però, le differenze con l’originale sono parecchie. Resta ovviamente il concept di fondo e – presumibilmente – la storyline principale, cambia però la caratterizzazione dei personaggi. Innanzitutto a livello di casting: se per Skins mi ero tenuto lontano da un confronto perché ritenevo poco importante la scelta degli attori, per Being Human la cosa si fa diversa. Come detto, gran parte della vena comica dell’originale è data dall’interpretazione di Russell Tovey, un attore dotato di una fisicità unica e capace di una grande lavoro con il corpo e le espressioni facciali. Nella versione a stelle e strisce, il suo ruolo è affidato a Sam Huntington, uno che starebbe bene in Grey’s Anatomy, ma che non ha assolutamente le caratteristiche per reggere un ruolo così in bilico tra commedia e dramma. Discorso simile per il vampiro: nella versione inglese, Aidan Turner è in grado di fare il bel tenebroso, ma anche di stemperare ogni situazione con sorrisi ben poco vampireschi. Al contrario, Sam Witwer è monoespressivo e ha una fisicità da terzo fratello Salvatore di The Vampire Diaries.

Il cambiamento degli attori è legato a doppio filo con quello dei personaggi. Se il lupo mannaro è sostanzialmente identico come caratteristiche, ben diversa è la faccenda per gli altri due. Nella versione inglese il cuore della storia stava nel raccontare tre esseri soprannaturali che sono perfettamente identici agli umani, salvo per alcune piccole caratteristiche. Non è un caso che tutti lavorino, abbiano relazioni sociali e – a parte il fantasma – mangino e bevano. In questo stava l’importanza del titolo Being Human: si trattava (si tratta) di esseri quasi umani.

Per dire, il vampiro è tra i più sfigati mai visti: a parte la vita eterna, non ha caratteristiche invidiabili, solo una tremenda dipendenza dal sangue. Il vampiro ammeregano, invece, ha forza sovrumana, capacità di ipnotizzare e supervelocità. In sostanza l’unica cosa umana che possiede è l’aspetto. Allo stesso modo, il fantasma inglese è concreto: i due coinquilini la toccano e lei può interagire con il mondo. L’americano è invece impalpabile e senza alcuna possibilità di intervenire sul corso degli eventi. La differenza è enorme, perché, come detto, ribalta il concept stesso che sta alla base del titolo: non più esseri diversi che cercano di vivere una vita normale, ma esseri non-umani che fingono di essere normali.

Dunque, tirando le somme, il remake è ben fatto. Forse è un po’ lento, ma ha il pregio di distaccarsi dalla versione originale. Fedele alla politica “era meglio il demo”, non posso però fare a meno di consigliare il Being Human inglese. E non è semplicemente un consiglio buttato lì, del tipo: “se dovete scegliere, andate su quello”. È proprio un consiglio del tipo: “se dovete iniziare una nuova serie, iniziate Being Human”. Perché merita, parecchio.

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