18 Ottobre 2011 2 commenti

The Walking Dead – La seconda stagione di Diego Castelli

Mai pi

Copertina, On Air

ATTENZIONE SPOILER, ANCHE SE QUASI TUTTO NELL’ULTIMO CAPOVERSO

Cari amici, gli zombie son tornati. Ci hanno messo quasi un anno – sarà che si muovono lentamente – ma lasciatemi dire che è un grande ritorno.

Dunque, mi pare del tutto inutile ripetere cos’è The Walking Dead e perché attendevamo con ansia la nuova stagione. Il Villa prima, e poi io, l’avevamo già spiegato. Nel caso la memoria fosse arrugginita, tornate ai vecchi post che così accumuliamo anche qualche click in più, male non fa.

E’ un grande ritorno, si diceva, e vedendo questa season premiere mi viene da pensare che non poteva essere altrimenti. Mi spiego subito.
The Walking Dead è una serie fortunella, perché al momento è l’unica del suo genere. La tv è piena di poliziotti, medici, adolescenti infoiati, agenti dell’FBI. Persino nel fantasy c’è ridondanza, coi vampiri e le streghe che spuntano un po’ ovunque.
Con gli zombie no, c’è solo Walking Dead. E voi potreste dire “che c’entra, mica il fatto di essere l’unico prodotto a parlare di un certo argomento lo rende meritevole di attenzione”. Più che vero. Il fatto che non esista un telefilm sugli scimpanzè in camicia di flanella, non significa che se ne senta la mancanza. Oddio un po’ sì…
Comunque qui è diverso. Gli zombie, e il mondo devastato che quasi obbligatoriamente si portano appresso, nascondono da sempre un potenziale narrativo fortissimo, che finora solo il cinema aveva sfruttato con costanza, e che la serie di AMC ha ampliato, con un’attenzione particolare alla psicologia dei protagonisti umani e al loro sviluppo come gruppo di sopravvissuti.

Da questo punto di vista, The Walking Dead è virtualmente immortale. Finché sarà l’unico telefilm sugli zombie, non potremo stancarci vedendo poco più di dieci puntate l’anno, anche se ognuna di esse sarà piena di elementi necessariamente ripetitivi: gli umani che viaggiano nel deserto della società morente, gli zombie che appaiono e ringhiano, i cervelli che saltano, le gambe che corrono.
Insomma, questa nuova stagione partiva già avvantaggiata, con gli spettatori che da un anno pregustavano la suspense, l’inquietudine e, perché no, pure quel tantinello di disgusto.
In questo, la premiere non delude: di sangue ce n’è tanto, di teste fracassate pure, così come quella bella ansia che ognuno di noi può provare al pensiero di essere soli in mezzo a orde di mostri orrendi il cui unico pensiero è staccarci la carne di dosso.

Ma gli autori, per fortuna, vanno oltre, dando al pubblico quello che desidera sul momento, e contemporaneamente preparando il terreno allo sviluppo successivo, secondo la linea che la serie aveva intrapreso fin dall’inizio.
Insomma, la semplice differenza tra scrivere un telefilm appena dignitoso e produrne uno con i controcazzi.
Il tema centrale di questa stagione, perciò, sembra essere in qualche modo opposto rispetto a quello dell’anno passato. Se prima avevamo assistito al formarsi di un gruppo di persone, unite dal comune desiderio di posticipare il proprio decesso, ora assistiamo al lento e progressivo sfaldarsi di quello stesso gruppo. L’umanità dei personaggi è anche qui: la logica suggerisce la necessità della coesione, ma i sentimenti personali, le differenze di giudizio e di opinione, i desideri divergenti fanno serpeggiare malcontento, lasciando presagire scosse violente. E la cosa bella è che questo primo episodio sembra quasi prendersi gioco dei suoi protagonisti, che di fronte all’improvvisa comparsa di un folto gruppo di zombie rimangono confusi e disorientati, incapaci di comprendere il comportamento dei mostri.
Ebbene sì ragazzi, i non morti stanno insieme più volentieri di voi, fatevene una ragione!

Quello che ci piaceva di The Walking Dead, insomma, è ancora tutto lì, nella sua componente horror-splatter, ma soprattutto per quanto riguarda il drama. Non sarà un viaggio infinito e pieno di pericoli sempre uguali. Che ripeto, forse avremmo guardato comunque, perché gli zombie televisivi sono solo qui, ma che si sarebbe inevitabilmente appiattito, dopo un esordio che è riduttivo definire “positivo”.
Mancano ancora dodici episodi, e me li guarderò con grandissimo gusto.

Una nota sul finale, che stava per suscitare un grosso vaffanculo e che invece strappa applausi.
E qui spoilero davvero ragazzi, quindi non leggete se non avete visto l’episodio.
Un po’ tutta la puntata verte sulla sparizione di Sophia, bambinetta bionda e con la bambola sempre in mano, persa di vista dopo la fuga da due walkers. I nostri trovano una chiesa, e la madre di Sophia ci prega dentro. Poco dopo anche Rick decide di dire due parole al tizio in croce, perché si sa che anche chi non va a messa tende a farsi qualche domanda in più non appena il mondo in cui vive viene devastato da milioni di cadaveri ambulanti.
Rick chiede un segno, qualcosa che gli dica che è sulla strada giusta. E mentre vedo ‘sta cosa sono un po’ a disagio, perché ho il timore che il tipico cristianesimo americano un po’ retorico e melenso si stia facendo strada anche qui. E non sono meno preoccupato quando Rick e suo figlio, in mezzo al bosco per cercare la ragazzina, vedono un cervo che senza alcun motivo li fissa da vicino invece di scappare spaventato.

Veramente? Sul serio questo “segno divino” è così immediato ed esplicito? Il sapore di dolciastro mi infastidisce, e considerate che io non sono mica il malvagio Villa.
Ma fortunatamente tutto si risolve: il bambino si avvicina al cervo e bam, riceve una pallottola in pieno petto. Da chi non si sa, e neanche mi frega, al momento. Mi basta che il segno che Rick cercava non si riveli essere un gentile cerbiattino, quanto una pallottola di grosso calibro nello sterno del figlio.

Che non esclude affatto rigurgiti clericali nel prossimo futuro, ma almeno ti fa pensare che, per ora, gli sceneggiatori sono ancora belli carichi.
D’altronde, se all’improvviso i tuoi vicini di casa vogliono mangiarti, dovrebbe venirti il vago sospetto che Gesù Cristo ti abbia già dato un segno, o no?



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