20 Gennaio 2012

Hell on Wheels – Ancora un passo dietro la grandezza di Diego Castelli

Conclusa la prima stagione del western di AMC

Copertina, On Air

Pochi giorni fa è finita la prima stagione di Hell on Wheels, il western targato AMC che ha riportato sul piccolo schermo uno dei generi cardine della storia dell’audiovisivo americano e mondiale, a cinque anni di distanza dalla fine di Deadwood.

Se ricordate, subito dopo il pilot il Villa aveva parlato di un prodotto dalle grandi potenzialità, ma con qualche difetto di troppo, che impediva di rimanere sbalorditi come di fronte ad altre premiere di AMC come Mad Men o Breaking Bad.
Dieci episodi dopo, possiamo dire che qualcosa è cambiato in meglio, ma che purtroppo non c’è stato il fatidico passo tra “bello show” e “capolavoro”.

Cominciamo con le cose buone.
Come era logico che fosse, e come il pilot faceva chiaramente vedere, Hell on Wheels è un western moderno, ben lontano dai canoni classici del genere, quelli di John Wayne, degli sceriffi buoni dal cappello bianco, dei banditi cattivi dal cappello nero, e degli indiani senza cervello buoni solo per essere massacrati. Da allora a oggi sono passati i Sergio Leone, i Clint Eastwood, i Piccolo grande uomo e i Balla coi lupi. E ovviamente Deadwood, che in tv ci ha fatto vedere un West ben poco romantico e decisamente più sporco e maledetto.

Hell on Wheels
si inserisce in questa tradizione, e ci mostra un’America giovane ma già sudicia al punto giusto, dove sono tutti dannati prima ancora di apparire sullo schermo, e dove anche il più ben disposto dei preti finirà con l’indicare la strada dell’odio come unica via possibile, in un mondo in cui Dio sembra inerme di fronte alle macchinazioni del Diavolo. E’ da queste premesse che sembra risolversi uno dei problemi che il Villa vedeva giustamente nel pilot: Cullen Bohannon, protagonista di scarse parole e passato doloroso, non sembrava avere carisma a sufficienza per reggere il marchio dell’eroe della storia. Negli episodi successivi, fortunamente, il suo sviluppo ci ha permesso di apprezzarlo maggiormente: al contrario di tanti altri western, dove seguiamo un nordista antischiavista che ha vinto la guerra perché è un figo (vedi Tex Willer), Bohannon è uno sconfitto, un sudista che il conflitto l’ha perso, e pure malamente. Per tutta la stagione, dà sempre l’impressione di essere fondamentalmente un poveraccio e un disadattato, uno che indubbiamente sa cavarsela, ma che di certo non è “il migliore” in niente. E’ così che i suoi propositi di vendetta, che farebbero presagire un percorso alla Kill Bill, tutto determinazione e violenza, lo portano più che altro a subire gli eventi, a fuggire tanto quanto insegue, fino all’omicidio involontario di un uomo innocente che in pratica lo trasforma in un cattivo.
E’ soprattutto qui che Hell On Wheels emana un apprezzabile aroma di verità: poco bianco e nero, tante sfumature di grigio, in una cittadina itinerante dove buoni propositi e aspirazioni di gloria si accompagnano a gretti calcoli personali ed egoismi neanche troppo mascherati. Bello in questo senso anche il percorso di Elam, che parte come ex schiavo legittimamente desideroso di riscatto, ma che in nome del suo personale successo si allontana dai compagni e dall’amore sorprendentemente genuino della prostituta Eva.
E per chiudere coi personaggi, buono anche l’inserimento dello Svedese (il Bigfoot di Sanctuary), che di fatto è poco più che una macchietta, ma che con quella faccia e quella pronuncia diventa un nemico riconoscibile e difficile da dimenticare, elemento che nel genere western non deve mancare mai.

L’altro problema ravvisato dal mio compare era quello della messa in scena, con una regia non particolarmente accattivante e anzi pure confusa. Anche da questo punto di vista c’è stato un miglioramento, ora più ora meno, con un’attenzione maggiore alla composizione delle inquadrature e un montaggio più compensibile, anche se va detto che, per essere un villaggio mai fermo e vagante per le praterie, Hell on Wheels è sembrato fin troppo chiuso e sempre uguale a sé stesso.

Risolti almeno parzialmente questi problemi, possiamo dire senza paura che Hell on Wheels è una bella serie, che merita l’attenzione che forse qualcuno di noi le ha levato dopo il pilot. Allo stesso tempo, però, non si riesce a usare i toni entusiastici riservati ad altri show di AMC. E i motivi, in parte, sono diversi da quelli visti nel pilot.
Il problema rivelatosi più evidente è la scarsa capacità di emozionare. E’ vero, la storia di Bohannon si sviluppa in modo convincente, così come quelle degli altri personaggi, ed è altrettanto vero che la regia migliora, offrendo scorci significativi che vale la pena di vedere in HD su un televisore bello grosso. Senza contare che non mancano i dialoghi calibrati e suggestici, come suggestivo era stato il monologo finale del pilot. Ma queste sono considerazioni più che altro intellettuali, fatte a freddo al momento di analizzare il prodotto su un blog che parla di telefilm. Al momento della visione concreta, invece, si è sentita nettamente la mancanza di un maggior numero di scene che togliessero il fiato. E non parlo necessariamente di momenti drammatici: una serie tv, così come un film o un libro, deve essere in grado di accelerare i battiti cardiaci dello spettatore, vuoi per l’adrenalina di un’ottima scena d’azione, vuoi per il divertimento generato da una bella battuta di spirito, vuoi per il dolore, la commozione, la rabbia di sequenze costruite per generare una risposta istintiva nello spettatore.
Sono le emozioni che obbligano il cervello a ricordare una sequenza, un’immagine o una frase per anni, magari per sempre, ed è sempre da lì che si parte per riconoscere un prodotto che vogliamo conoscere nel dettaglio, sondandone ogni aspetto.
Da questo punto di vista, Hell On Wheels zoppica. Trama ben costruita, belle immagini, ma pochi momenti che rimangano impressi a fuoco nella mente. Pochi serial moments, tanto per capirci.

Il motivo non è uno solo. Può essere una piccola inquadratura sbagliata, un dialogo pregnante ma tirato troppo per le lunghe, un risvolto narrativo meno azzeccato di quelli che gli stanno intorno. Fatto sta che Hell On Wheels sembra spesso sul punto di far esplodere emozioni violente, salvo poi mancare l’appuntamento, per questo o quel dettaglio fuori posto. Lo stesso omicidio finale, che concettualmente è un momento molto importante nello sviluppo del personaggio di Bohannon, passa quasi sotto silenzio: “sentiamo” che dovremmo provare emozioni più forti, ma il nostro sguardo rimane troppo freddo.
E a questo (bel) problema non contribuisce una regia che, se ha eliminato buona parte degli errori di comprensibilità, dall’altra indulge troppo spesso in inquadrature che prese singolarmente possono essere maestose, ma che alla lunga finiscono col risultare stucchevoli e un po’ autocompiaciute. Esempi? Eccone una, eccone un’altra, e via un’altra ancora.

In qualche modo, anche se per motivi diversi, la conclusione finisce con l’essere simile a quella del Villa: Hell On Wheels continua a mostrare robuste potenzialità, ma per ora sembra incapace di tenere insieme tutti-ma-proprio-tutti i pezzi, cadendo in nuovi, piccoli problemi nel momento in cui riesce a risolverne altri.
Credo che, soprattutto, serva un po’ di coraggio, una maggiore propensione al rischio: è sempre possibile perdere il controllo dei propri personaggi e delle proprie storie, ma è solo togliendo loro il cappio di una scrittura e di una messa in scena troppo rigide che è possibile scovare le passioni violente e le forti emozioni che un western come questo deve regalare al proprio pubblico.
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