17 Novembre 2015 15 commenti

The Leftovers – Tutta la nostra fiducia è stata ripagata di Marco Villa

Perché The Leftovers non si limita a raccontare delle storie, ma vuole essere molto di più

Copertina, On Air

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Avete presente quando, qualche settimana fa, il mio socio disse che Damon Lindelof è uno che probabilmente ne ha prese tante nella vita perché ha sempre esagerato? Ecco, può essere e l’ultima volta con il finale di Lost gli è andata particolarmente male a livello di reazioni, ma la cosa importante è che lui non si è mai perso d’animo, perché solo uno che è sopravvissuto a tutto ciò che il finale di Lost ha provocato può poi essere in grado di pensare e scrivere una serie come The Leftovers. Una serie che, diciamolo terra terra, se ne sbatte di tutto e di tutti. Era così già nella prima stagione, con quel ritmo dilatatassimo e quella sfrontatezza assoluta nel dichiarare a ogni passo: “cos’è? Vuoi anche sapere perché questi sono spariti? Ma non scherziamo, su!”.

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La prima stagione di The Leftovers si basava tutta su questo giochino appena citato, sull’avere un evento gigantesco e sul volerlo lasciare lì, in bella vista ma senza toccarlo. Un atteggiamento che poteva essere considerato odioso, snervante, ma che allo stesso tempo prometteva grandi soddisfazioni a chi avesse deciso di professare nei confronti della serie quell’atto di fede di cui parlava sempre con insospettabile cognizione di causa il Castelli. Non solo nella prima stagione l’Evento con la e maiuscola era in bella vista eppure celato, ma anche le storie dei protagonisti erano raccontate in modo elusivo, senza mai entrare davvero nel vivo, come a voler abbozzare delle figure, ma senza volerle descrivere davvero. Al di là di qualche evento, tutto quello che abbiamo saputo di loro è che erano piene di rabbia e infelicità. Certo, abbiamo assistito alla distruzione dei Guilty Remnants, abbiamo scoperto qualcosa su come il governo stesse gestendo la situazione e abbiamo addirittura capito qualcosa della setta del Santo Wayne di cui faceva parte il figlio del protagonista. Ma poca roba se confrontata alla mole di frustrazione che ogni personaggio ci riversava addosso ogni settimana.

Un approccio molto ostico, che non a caso ha provocato reazioni polarizzate e ha fatto riemergere tutte le perplessità sul Lindelof teologico del finale di Lost. Ma dicevamo che The Leftovers è una serie che se ne sbatte di tutto e di tutti e così con il cambio di stagione è arrivato anche un cambio di passo che, pur non tradendoli, ha spiazzato gli appassionati delle prime puntate, estremizzando tutto. Se prima le storie dei personaggi erano solo stilizzate, come a voler cercare una sorta di coerenza stilistica con il tratteggio del grande evento misterioso, ora la scomparsa del 2% dell’umanità viene relegata ancora più in secondo piano, mentre le vite dei protagonisti diventano davvero il cuore della serie. E non più con un vago sguardo da lontano, ma come un’immersione totale che toglie il fiato.

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Arrivati a metà della seconda stagione, non c’è stato finora un solo episodio in cui lo spettatore sia sia potuto rilassare: l’angoscia sottile della prima puntata non è mai scomparsa, ma si è anzi ispessita raggiungendo livelli davvero pesanti nella quinta puntata, quella che si è concentrata sulla vicenda del reverendo Matt Jamison, del suo bisogno disperato di avere fede e di avere una missione da compiere. Una puntata durissima, in cui uno dei pochi personaggi finora davvero positivi della serie è stato spinto al limite, portando con sé il pubblico. Se questo è stato finora l’episodio migliore dell’anno, va detto che in ogni puntata c’è almeno una scena, un momento che fa cadere la mascella e lascia interdetti per potenza narrativa e capacità di catalizzare attenzioni ed emozioni.

Durante le prime dieci puntate, lo scorso anno, abbiamo detto, ridetto e stradetto quanto The Leftovers fosse una belle serie, con potenzialità di racconto infinite. È bastato pazientare qualche episodio e ora quelle potenzialità sono diventate realtà: non c’è un personaggio, non c’è una storyline che non sia forte. E c’è di più, perché qui non si tratta semplicemente di una grande capacità di mettere in piedi un racconto: no, qui Lindelof sta provando a prendere l’ambizione escatologica che aveva espresso nella chiusura di Lost e a espanderla al massimo. Non più la giustificazione e il fine ultimo dell’universo di una serie tv, ma il suo stesso orizzonte. Raccontare i dubbi e le grandi domande dell’uomo non è cosa facile, farlo in maniera così aperta e senza filtri è davvero un obiettivo più che ambizioso. Ma se state leggendo queste parole, anche voi vi siete fidati del mondo di The Leftovers. E adesso sapete che avete fatto benissimo.

Stop. Punto. Avevo scritto tutto questo prima di vedere la settima puntata, che se possibile non fa altro che confermare le linee guida di questa stagione. Da una parte la componente spirituale-mistico-religiosa che spinge il povero Kevin Garvey a cercare il sacrificio per fare ammenda ed eliminare la parte peggiore di sé, dall’altra la già citata capacità di far cadere la mascella. Perché in pochi secondi succede quello che non avresti mai pensato. E si torna alla voglia di Lindelof di rilanciare sempre e comunque.

(adesso metto la sigla con Let The Mistery Be di Iris DeMent perché la canzone mi fa impazzire – e pure il nome della tizia)



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