18 Aprile 2017 24 commenti

13 Reasons Why: un necessario commento finale di Diego Castelli

Non possiamo non tornare sul fenomeno del momento

Copertina, On Air

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SPOILER SU TUTTA LA PRIMA STAGIONE

Quando il nostro Francesco Martino ha scritto l’anteprima di 13 Reasons Why, avendo a disposizione solo i primi quattro episodi, non solo non sapeva come la storia sarebbe andata a finire, ma nemmeno poteva immaginare che sarebbe diventata nel giro di pochissimo uno dei più grandi social-successi di Netflix, una serie da milioni di tweet e un nuovo eccezionale volano (se mai ce ne fosse bisogno) per la popolarità della piattaforma.

Siccome però questa cosa è successa, scatenando dibattiti e riflessioni che sono andati anche molto al di là della serie in sé e per sé, vale sicuramente la pena tornarci sopra, provando a fare un po’ di ordine a mente fredda.
L’impressione, per certi versi, è che 13 Reasons Why non si “meriti” tutto questo macello, e che parte dell’attenzione derivi direttamente dal formato di presentazione (i tredici episodi tutti in una volta, che sembrano fare da eco ai nastri prodotti dalla protagonista e consegnati ai loro destinatari) e dall’avere appiccicata sopra la firma di Netflix, che sta diventando una specie di logo della Apple: dovunque lo metti, il valore (o magari solo il prezzo) aumenta.
Allo stesso tempo non si può nemmeno negare che 13 sia profondamente una serie di Netflix, che dopo aver fagocitato e rimasticato altri generi (dal drama carcerario alle avventure supereroistiche), anche col teen drama calca la mano sua una specie di studiato realismo, che non significa necessariamente “plausibilità”, ma che trasmette agli spettatori una sensazione ben diversa rispetto al luccichio di certi prodotti di CW, ma anche al mistery letterario alla The Affair.

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Se Orange is the New Black, specie all’esordio, ci dava l’impressione di essere un racconto più “vero” dell’ambiente carcerario rispetto a che ne so, Oz o Prison Break, e se Daredevil ci sembra un supereroe più umano e sanguigno rispetto alle sue controparti cinematografiche, allo stesso modo 13 Reasons Why trasmette la sensazione di essere immersi in un contesto adolescenziale più vicino alla realtà, rispetto alle vite super-glamour di tanti altri protagonisti di teen drama.
Bisogna però essere chiari: è soprattutto una questione di atmosfere e psicologie, più che di effettiva plausibilità. E non parlo solo del fatto apparentemente inevitabile che praticamente nessun protagonista ha l’età del suo personaggio (credo che l’esempio più vistoso sia Christian Navarro, l’interprete di Tony, che ha 10 anni più del suo personaggio e si vedono tutti, pure qualcuno di più). Parlo proprio della costruzione narrativa, in cui una ragazza suicida lascia tredici registrazioni che portano a tredici episodi costruiti come una specie di caccia al tesoro sulle motivazioni del suo gesto. Non c’è nulla di “realistico” qui, né la serie cerca mai di mascherare la sua natura di prodotto scritto a tavolino, in cui passato e presente continuano ad alternarsi con buona eleganza e un certo gusto per il dettaglio (vedere tutti quegli elementi, tipo il cerotto sulla fronte di Clay, che insieme alla fotografia leggermente ingrigita segnalano silenziosamente il passaggio fra i piani temporali).

Sempre in questo ambito di scarso realismo troviamo anche quello che è probabilmente il maggior difetto della serie, cioè l’ostinazione con cui Clay evita accuratamente di ascoltare tutte le cassette in una volta. Quando si fruisce di un prodotto di fiction bisogna sempre sospendere parte della nostra incredulità, altrimenti non riusciremmo a goderci le sparatorie in cui non si cambia mai caricatore o le commedie romantiche in cui tutte le coincidenze possibili e immaginabili concorrono all’amore finale dei protagonisti. Allo stesso tempo, la sospensione di incredulità non è una tassa da pagare, bensì un patto che lo spettatore sottoscrive con gli autori: in questo senso, per come ci viene presentato il personaggio di Clay, non ha davvero alcun senso che non ascolti tutte le registrazioni in una volta. Ma non solo non lo fa, prendendosi dal tempo per elaborare ogni nuova informazione. No, agisce anche di conseguenza, litigando e azzuffandosi con la gente senza mai avere il quadro completo della situazione, tipo tutti quegli intelligentoni che commentano gli articoli di giornale avendo letto solo il titolo.
Considerando fra l’altro che questa cosa nel libro da cui la serie è tratta non succede, è del tutto palese la sua natura di trucco pensato dagli sceneggiatori per tenere vivo il racconto per tutti e tredici gli episodi, aumentando il tasso di mistery in barba, per l’appunto, alla pura e semplice verosimiglianza.

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Il paradosso però è che questo difetto, a volte davvero irritante, non toglie nulla all’impressione di sincerità che riceviamo da questi personaggi. In parte è una pura questione di casting azzeccato: commovente l’esile fragilità sotto il bellissimo viso di Katherine Langford, ma pure lo sguardo spaurito Clay/Dylan Minnette funziona alla grande, anche se spesso vorremmo prenderlo a sberle per sto fatto di prendersela troppo comoda nell’ascolto delle cassette. Ma in larga parte è una questione di scrittura e di messa in scena: rifuggendo quasi sempre i cliffhanger e i momenti di grande sorpresa, che in altri prodotti dello stesso genere svelano la natura “televisiva” del prodotto, 13 Reasons Why funziona più come un flusso, un percorso progressivo che, prima ancora di condurci allo svelamento di un particolare segreto, serve a restituirci la solitudine di Hannah, il lento accumulo di infelicità e infine di vuoto emozionale che la porta a considerare e mettere in pratica un gesto estremo come quello del suicidio.
La miglior qualità di 13 Reasons Why sta proprio qui: del “chi sia il colpevole” ci interessa relativamente, e anzi io avrei pure evitato lo stupro di Hannah da parte di Bryce, proprio perché una tale violenza finisce inevitabilmente col prendere molta importanza; quello che ci interessa, anzi quello che ci emoziona, è il sempre maggiore isolamento sperimentato dalla protagonista, che non è frutto di un singolo elemento o evento, bensì la somma di una lunga serie di piccole infelicità e abbandoni.

Ammesso e non concesso che 13 Reasons Why abbia un valore sociale e forse perfino pedagogico (andrei sempre cauto con questo tipo di definizioni), esso sta proprio qui, nel racconto di un microcosmo in cui nessuno è davvero colpevole ma in cui, per certi versi, lo sono tutti: il suicidio di Hannah è sconvolgente perché in un primo momento è inaspettato e incomprensibile, ma diventa pian piano sempre più motivato, nella percezione di Hannah e dei suoi ex amici, a fronte di tanti piccoli ostacoli che, uniti insieme, diventano una montagna insormontabile. Una montagna che, evidentemente, nessuno è stato in grado di riconoscere in tempo, che si parli degli ex amici o di tutta quella pletora di adulti che dei loro figli non riescono a capire nulla, anche quando non hanno mai fatto mancare amore e supporto (e in questo i genitori di Hannah sono i personaggi migliori fra gli adulti della serie, proprio perché hanno tutto ciò che serve per essere bravi genitori, tranne la complicata abilità di riconoscere il disagio profondo della figlia).

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Un serie tosta, dunque, non priva di difetti anche vistosi (non abbiamo citato parecchi stereotipi stridenti con il realismo e la creatività di altre situazioni, e nemmeno la pochezza di alcuni interpreti secondari), ma che ha il merito di provare a leggere ogni angolo di una dinamica tutt’altro che semplice o scontata.
Inevitabile, quindi, che proprio su questo piano si siano sviluppate le critiche più feroci alla serie. Per esempio, qualcuno è arrivato a dire che 13 istiga al suicidio, perché lo dipinge come un gesto effettivamente “efficace” nel ricevere attenzione. Altri invece si sono scagliati specificamente contro la scena del suicidio, che sarebbe troppo cruda e disturbante per un pubblico composto inevitabilmente anche da adolescenti.
Devo dire che mi paiono critiche zoppicanti e, nel caso specifico di questo due, anche reciprocamente escludenti: ammettendo per ipotesi di scuola che Hannah sia un personaggio capace di esercitare un qualche tipo di fascino oscuro su spettatori e spettatrici già fragili, è altrettanto vero che la scena del suicidio, criticata da quegli altri, ha proprio la funzione di mettere lo spettatore di fronte alla sconvolgente verità. Il suicidio, che fino a quel momento poteva passare per l’epilogo stiloso di un gioco fra teenager, deve anche essere mostrato nella sua verità più nuda: una vasca piena di sangue e il pianto disperato di una madre.

13 REASONS WHY

È proprio con quella scena, fra le più forti che ci sia capitato di vedere nella serialità recente, che 13 Reasons Why completa il suo percorso e trova definitivamente la sua dimensione: non un racconto documentaristico, ma nemmeno il sogno edulcorato di una storia evidentemente falsa; più una (giusta) via di mezzo, il racconto di personaggi inventati ma che riescono a toccare corde profonde, che vibrano nella giovinezza di ciascuno facendoci sentire il familiare peso di un desiderio comune a tutti, quello di poter tornare indietro per correggere scelte sbagliate che all’epoca non sapevamo nemmeno di stare compiendo.

In chiusura, lo stesso appello già messo in campo per Big Little Lies: alziamo tutti insieme la nostra preghiera affinché non ci sia una seconda stagione. Non ci sarebbe la storia per farlo, non ci sarebbe il motivo né l’opportunità. Il racconto di Hannah è concluso, così come è concluso il percorso di Clay, che con quel mezzo sorriso finale sembra suggerire la possibilità, per lui, di andare avanti e costruirsi una nuova vita dopo aver fatto i conti con il doloroso passato.
Non serve altro, va bene così.

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