24 Maggio 2018 4 commenti

13 Reasons Why seconda stagione: doveva essere inutile, e forse non lo è di Diego Castelli

Su Netflix il ritorno di 13 Reasons Why ci convince un po’ più del previsto

Copertina, On Air

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ATTENZIONE: PENSAVO DI NON FARE SPOILER, MA POI L’ANALISI MI VENIVA MALE, QUINDI CI SONO E CIAO

L’anno scorso ero fra quelli che dicevano “speriamo che non producano una seconda stagione di 13 Reasons Why, perché va già bene così”.
Ora forse devo rivedere quel giudizio, almeno in parte.
Bene, ho snocciolato uno straordinario teaser, adesso andiamo con ordine.

Non credo sia necessario fare chissà quale riassunto: la prima stagione di 13 Reasons Why raccontava di Hannah Baker, adolescente apparentemente come tanti che sceglie di suicidarsi e affida a tredici cassette i motivi della sua decisione, tredici messaggi indirizzati ad altrettante persone che provano a mettere in ordine i tasselli di un mosaico di bullismo, violenza, ansia, colpa e depressione, capace di condurre la protagonista al tragico gesto.

Dopo pochissimo tempo dalla sua prima distribuzione su Netflix, 13 è diventata un caso, per motivi che vanno oltre la sua mera costruzione narrativa o le modalità della sua messa in scena. Più banalmente (ma di banale non c’è proprio nulla), è stato proprio l’interesse dei giovani e giovanissimi verso la serie ad attirare a sua volta l’attenzione degli adulti, dei critici e degli osservatori di ogni genere: nel momento in cui una gran mole di adolescenti si mette a discutere di suicidio guardando una serie con protagonista un’adolescente suicida, è inevitabile il sorgere di una certa preoccupazione (sia detto in senso generale) degli adulti.
Le risposte a questa preoccupazione sono state le più varie, dal timore che 13 potesse addirittura istigare al suicidio, alla speranza che, al contrario, rappresentasse un’occasione per discutere in maniera razionale di argomenti molto delicati.

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Senza voler fare gli psicologi a tutti i costi, che non è il nostro campo, noi siamo sempre stati per la seconda ipotesi, nella consapevolezza che la narrativa (tutta la narrativa, non solo televisiva) ha tra le sue funzioni principali proprio quella di offrire spazi protetti e controllati in cui affrontare temi ed emozioni anche forti e controversi. Li affronto nella narrativa, ne parlo all’interno dei confini sicuri della cultura, e così sarò un passo avanti al momento di affrontarli nella vita reale, se mai capiterà.
Ma ripeto, questa resta un’opinione basata sull’esperienza personale da serialminder di lungo corso, e qui chiudiamo il pippotto psichiatrico (anche perché ne avevamo parlato di più nella recensione dell’anno scorso).
Molto più oggettivo e pacifico, invece, l’impatto di questo successo sulla stessa Netflix, che forse nemmeno si aspettava un riscontro di questo tipo. La piattaforma americana venne criticata e lodata allo stesso tempo, e fu costretta a chiarire la sua posizione in varie salse. Soprattutto, non poté fare a meno di ordinare una seconda stagione.

Qui c’è il primo punto da chiarire. All’epoca avevamo sostenuto la sostanziale inutilità di una seconda stagione, dopo che la storia di Hannah sembrava pienamente conclusa nella prima. Ovviamente, però, non eravamo così fessi da non comprendere i motivi per cui Netflix l’aveva ordinata: quando hai per le mani un successo del genere cerchi di replicarlo, e in questo non c’è nulla di male o di illegittimo.
A quel punto però diventava importante capire come Netflix avrebbe impostato la seconda stagione, dopo che la prima aveva prodotto un’eco sociale e politica così forte, forse perfino suo malgrado.
In questo senso, si è speculato molto sugli appigli narrativi a cui gli sceneggiatori si sarebbero aggrappati per proseguire la storia, e si è fantasticato ora sulle armi di Tyler, intraviste a fine stagione, ora sull’introduzione di un altro personaggio con tendenze suicide, oppure ancora su altri misteri e segreti rimasti in sospeso.

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Dopo averla vista davvero, la seconda stagione, possiamo ora fare il punto di una strategia che, probabilmente, ha riservato qualche sorpresa.
Se i primi episodi di 13 Reasons Why avevano assunto una valenza socio-politica quasi spontanea, inaspettata, i secondi mostrano fin da subito una consapevolezza molto maggiore del proprio ruolo nel mondo seriale ma, anche e soprattutto, nel dibattito pubblico. È una stagione che inizia con un avviso molto esplicito circa la forza e la delicatezza dei temi trattati, e in cui gli attori protagonisti mettono la faccia in un appello per tutte le persone in difficoltà che si trovassero a guardare la serie: viene offerto aiuto e supporto, e ogni episodio termina con il rimando a un sito pensato proprio per offrire una spalla ad adolescenti in crisi.
Da una parte è una paraculata, un modo per stoppare sul nascere nuove critiche, ma dall’altra è il simbolo di una precisa presa di coscienza da parte della produzione.

Subito dopo quell’introduzione arriva una stagione che sente moltissimo il peso di una responsabilità che, volenti o nolenti, va ben oltre il semplice intrattenimento, e influenza la scelta di cosa raccontare. Ecco allora che molte delle ipotesi iniziali su ciò che la stagione avrebbe raccontato vengono a cadere, in tutto o in parte, perché in realtà 13 Reasons Why ha sostanzialmente rinunciato alla sua anima mystery e gialla, qui relegata più che altro a elemento di raccordo, per diventare un vero e proprio drama in cui la storia di Hannah resta pienamente al centro del discorso.
Molto semplicemente, ora ci viene raccontato ciò che accade dopo, in termini concreti ma soprattutto emotivi: gli amici e i nemici di Hannah le sono sopravvissuti, ma ora devono elaborare quella sopravvivenza, e soprattutto capire se e come è possibile costruire un mondo dove una sofferenza come quella di Hannah non sia più possibile.

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Il filo conduttore legato alla causa che i genitori di Hannah intentano nei confronti del liceo, reo a loro dire di non aver saputo creare un ambiente adatto alla crescita degli studenti, ha proprio questa funzione: al netto della suspense da legal che può creare, serve proprio come momento di auto-riflessione collettiva, con cui la comunità dove Hannah ha vissuto i suoi ultimi giorni (e per riflesso gli Stati Uniti di cui quella comunità è specchio) analizza e comprende le proprie mancanze e prova a porvi rimedio.

Da una parte, avendo perso l’elemento di originalità legato alle cassette, 13 è diventata un teen drama più “normale”, per lo meno nella struttura e nelle dinamiche fra i protagonisti. Allo stesso tempo, però, ha guadagnato altre tacche di scavo psicologico, perché sonda con infaticabile tenacia tutti ma proprio tutti gli angoli della mente dei suoi protagonisti, a partire naturalmente da Clay, che rimane il nostro punto di vista privilegiato: partendo da lui e allargandosi poi a tutti gli altri, gli autori scavano e scavano e scavano, incontrando il dolore, la colpa, la paura dei personaggi, ma soprattutto il loro smarrimento, l’indecisione sulla bontà o meno della propria condotta.

Perché alla fine uno dei temi centrali della serie, se non quello principale, è l’invito agli spettatori a guardare se stessi, i propri comportamenti e azioni nella vita quotidiana, osservandone i riflessi e le influenze sulla sensibilità altrui.
Genitori, insegnanti, amici di Hannah, tutti sono nuovamente chiamati in causa per ricordare e riflettere, e a tutti viene concessa la possibilità di fare ammenda e iniziare una vita che nel suicidio di Hannah possa trovare non solo sofferenza, ma anche insegnamento.
Non ci si domanda solo cosa è successo, non solo il come e il perché. Ci si chiede anche cosa ha lasciato, come si fa ad andare avanti, e come si può riuscire a migliorare.

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Questo è il peso consapevolmente politico di 13 Reasons Why, e non deve stupire se, proprio in virtù di questo nuovo ruolo in parte scelto e in parte imposto, la serie affronta in maniera più approfondita anche altri due-tre temi centrali dell’America di questi anni, o addirittura di questi mesi, come la condizione femminile e il possesso di armi: la storia di Hannah e delle violenze da lei subite diventa, anche in termini di messa in scena, la storia di tutte le donne maltrattate e abusate, a cui si cerca di dare voce e coraggio e a cui, minutaggio alla mano, è dedicata buona parte della stagione, in cui diverse ragazze si trovano a dover compiere (o non compiere) il difficile passo verso la denuncia delle violenze subite. La scena in cui Jess, di fronte al giudice che deve deliberare sulla colpevolezza di Bryce, si trasforma in tutti le altre donne e ragazze della serie, impegnate a denunciare violenze passate o presenti, è già stata ribattezza “momento #MeToo”, e forse non è un caso che Bryce, il maschio abusatore, sia uno dei pochissimi personaggi a non cogliere manco per sbaglio le possibilità di redenzione che gli vengono offerte.

Discorso simile per il tema delle armi, che occupa uno spazio minore rispetto a quello che si poteva pensare sul finale della prima stagione, ma che rientra nel racconto di un’adolescenza complicata e troppo spesso lasciata a se stessa, senza guida e senza adeguato supporto. A quel tema, peraltro, è legata la sodomizzazione di Tyler, la scena-shock di questa stagione che ancora una volta ha sollevato un vespaio di polemiche largamente sterili, visto che quelle atrocità accadono veramente e non si capisce perché non si dovrebbero mostrare in una serie che si pone proprio lo scopo di comprendere appieno determinati fenomeni.

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Quando all’inizio parlavo di dover rivedere almeno in parte la mia opinione sull’opportunità di una seconda stagione, intendevo proprio questo: non pensavo che sarebbero stati in grado di stare sul pezzo in questo modo, rimanendo addosso a una storia già raccontata ma in cui c’era evidentemente margine per scavare ancora. È una stagione coraggiosa, dunque, che rinuncia all’originalità a tutti i costi per assorbire ciò che ha intorno e proseguire un discorso ancora attuale e degno di attenzione, specie perché, testimonianze alla mano, è un discorso capace di uscire dall’ambito ristretto e oscuro della critica televisiva, per farsi esperienza concreta di una precisa fascia di pubblico.

Accanto a tutta questa riflessione, però, ne dobbiamo fare una tecnica e artistica, perché siamo ancora un sito di appassionati di serie tv a cui piace commentare e giudicare il prodotto televisivo anche e soprattutto per la sua componente spettacolare.
In questo senso, il rinnovato peso politico di 13 Reasons Why non poteva non avere un’influenza decisiva nel modo in cui la vicenda di Clay e degli altri viene messa in scena. I 13 episodi sembrano ancora troppi, o per lo meno troppo lunghi, ma soprattutto appaiono vistosamente rivoltati su loro stessi: basta guardare quante volte, in una forma o nell’altra, i singoli personaggi e le voci fuori campo parlano della necessità di ascoltare, amare, non giudicare troppo in fretta. C’è un intento palesemente pedagogico e psicologico, anti-violenza e anti-bullismo, di cui abbiamo parlato nelle righe sopra e che punta espressamente a farsi strada a forza nelle menti sovraffollate degli adolescenti davanti allo schermo, ma che di certo non aiuta la serie in termini di pura ripetitività: dopo 13 episodi è abbastanza forte la sensazione che si potessero dire le stesse cose in meno della metà delle puntate.
Stesso discorso per alcune soluzioni più puntuali, come per esempio la decisione di far dialogare Clay con il “fantasma” di Hannah. Difficile, per il pubblico più smaliziato, non vederci un trucchetto di quart’ordine che ha soprattutto la funzione di tenere Katherine Langford nel cast. Un trucco che nella maggior parte dei casi funziona male, o funziona poco, proprio per il suo carattere posticcio, da commedia soprannaturale, e che riesce ad alzarsi davvero solo in due-tre punti (vedi Clay tentato di sparare a Bryce), in cui il carattere apertamente teatrale dell’escamotage riesce però a restituire, nella forma del dialogo serrato con se stessi, lo stress psicologico del protagonista.

Si potrebbero fare anche altri esempi, dalla vicenda di Clay che nasconde in casa Justin (apparsa fin troppo inverosimile), alla netta sensazione, a un certo punto, che la scuola si fosse trasformato in un crogiuolo di aspiranti suicidi, tirando forse un po’ troppo la corda con il concetto del liceo brutto-brutto in cui succedono le cose cattive. Ma insomma, ci siamo capiti.

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L’impressione, a conti fatti, è che 13 Reasons Why non fosse un capolavoro dell’audiovisivo già nella prima stagione, e che non lo sia diventata neanche con la seconda. C’è un distacco abbastanza palese, quindi, fra il suo valore culturale e politico, e la sua effettiva qualità artistica, cosa che potrebbe generare risposte molto diverse: non mi stupirei di sapere di spettatori commossi, o colpiti da certe scene brutali, così come non mi sorprenderei nel sapere di gente stra-annoiata che ha mollato tutto dopo due episodi.
(A questo proposito, mi viene da dire che la scelta migliore degli autori è quella più influenzata dal clima in cui scrivono: a fine stagione la scuola non subisce alcuna pena, e Bryce ne riceve una ridicola. Sembra quindi che finisca tutto “male”, se non fosse che, ancora una volta, la seconda stagione di 13 Reasons Why non punta a un racconto sempliciotto in cui i cattivi finiscono in prigione e i buoni cavalcano felici verso il tramonto, quanto piuttosto a un percorso in cui la vera vittoria è la crescita, la comprensione e un ritrovato equilibrio per se stessi).

In conclusione, siamo di fronte a una situazione abbastanza inusuale per le serie tv, che anche nel migliore dei casi generano dibattito su come raccontano un certo tema, piuttosto che sul tema di per sé. Con 13 Reasons Why accade il contrario: la serie ha stimolato un dibattito che prescinde dalle forme specifiche della serie, oggetto di analisi solo successiva.
Il paradosso, quindi, è che non posso esimermi (con mia sorpresa) dal consigliare la visione della seconda stagione di 13 Reasons Why, sottolineandone la rinnovata rilevanza extraseriale, pur registrandone al contempo certi limiti puramente tecnici e stilistici che ne fanno un esercizio almeno in parte forzato o, comunque, non particolarmente significativo dal punto di vista artistico.
Superflua, eppure inevitabile.
Faticosa, ma forse imprescindibile.



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