5 Marzo 2020

Dispatches From Elsewhere: o di quando Jason Segel si sentì David Lynch di Diego Castelli

L’ex Marshall di How I Met Your Mother scrive e interpreta una serie assurda e incomprensibile, non necessariamente nel senso brutto del termine

Pilot

Ma esattamente, cos’è che ho visto?
Questa la domanda, spontanea, incuriosita, forse pure un po’ incazzata, al termine della prima puntata di Dispatches From Elsewhere, nuova serie pazzariella in onda su AMC e recante la firma di Jason Segel. L’ex Marshall di How I Met Your Mother è infatti creatore dello show, protagonista, produttore, regista del primo e ultimo episodio, ma non si è inventato tutto lui: la serie è infatti basata sul documentario The Institute, di Spencer McCall, che nel 2013 raccontò di un particolare, enorme gioco di società/caccia al tesoro ideato dall’artista Jeff Hull. Un gioco che per tre anni, dal 2008, coinvolse circa 10 mila persone, “reclutate” attraverso strani volantini sparsi per San Francisco, e poi coinvolti in una specie di realtà alternativa immaginata per fargli credere di essere finiti in chissà che complotto galattico.

Che poi è quello che succede in Dispatches From Elsewhere. Protagonista è Peter (Jason Segel), un anonimo informatico che conduce una vita grigia, senza gioie e senza dolori, che si trascina in giornate sempre uguali. A un certo punto, Peter si imbatte proprio nei famosi volantini (come nel gioco di cui si diceva) e finisce negli uffici del Jejune Institute, una specie di società segreta dedicata a non si sa bene quali scopi, ma che sembra promettere una specie di arricchimento spirituale clamoroso.
Nel frattempo, però, arriva anche una spinta esterna: Peter, insieme ad altri personaggi fra cui spicca Simone, transessuale intepretata da Eve Lindley, riceve anche l’invito da parte della Elsewhere Society, che si oppone alle macchinazioni del Jejune Institute e invita i suoi accoliti a cercare questa misteriosa Clara, sorta di anello di congiunzione fra cose che non si sa cosa siano.

Se questo riassunto vi è parso quanto mai raffazzonato e casuale, non è perché non son più capace di scrivere. Cioè, spero. La questione è che è proprio la serie a presentarsi in modo assurdo, bizzarro e indecidibile. Narrata con voce fuori campo da Octavio Coleman Esquire (Richard E. Grant), capo del Jejune Institute che si rivolge direttamente a noi e ci parla di Peter come del personaggio di una storia, Dispatches From Elsewhere sembra il tentativo, da parte di Jason Segel, di ripercorrere le orme di David Lynch.
Fin dalla prima scena, tutti gli elementi che compongono la serie sono pensati per creare un effetto di straniamento: il prolungato silenzio di Octavio su fondo arancione, i folli sogni a occhi aperti di Peter quando trova i volantini, le piccole soluzioni creative come il ripetitivo “work, work stuff” che sostituisce le parole del capo di Peter, a simboleggiare la pochezza di quegli ordini che alle orecchie del protagonista suonano come una monotona cacofonia.
Tutto è concepito per costruire e suggerire una realtà “altra”, sottesa a quella che conosciamo, in cui immergere personaggi fino a quel momento ignari e, ora, comprensibilmente spaesati.

Uno spaesamento che, come accennato, arriva a coinvolgere lo stesso tessuto della sotto-realtà. Quante volte abbiamo visto serie e film in cui creature soprannaturali e mondi magici si nascondevano nelle pieghe della nostra ingenua quotidianità? Solo che in quei casi, una volta squarciato il velo, il nuovo universo si rivelava con molta chiarezza: quando Harry Potter entra nel binario 9 ¾, si apre un mondo che nessuno conosce a parte i maghi, ma che per i maghi (e per lo spettatore) diventa presto molto chiaro nelle sue potenzialità e nelle regole che lo governano.
Con Dispatches From Elsewhere invece è diverso: ai personaggi – e agli spettatori con loro – viene suggerito che esiste qualcosa al di là della loro normale realtà, qualcosa di misterioso, pericoloso, complottoso, ma per il momento non ci è dato di sapere cosa sia.
E non è una scelta di pigrizia, perché è invece il vero tema dello show, almeno per i due episodi visti finora: a smuovere i personaggi non è tanto sapere cosa c’è oltre la loro realtà, ma semplicemente sapere che qualcosa esiste. In questo senso, il personaggio di Peter (ma si potrebbe fare un discorso non tanto diverso per gli altri) sembra il simbolo di una società insieme caotica e spersonalizzante, incapace di riconoscere e soddisfare i bisogni dei singoli individui, costringendoli a uniformarsi a questa o quella massa, quando in realtà avrebbero bisogno di davvero poco per ritrovare entusiasmo e gioia.
Un problema evidenziato molto bene nel secondo episodio, quando Simone sembra rendersi conto che nemmeno il suo essere diventata donna può risolvere un disagio e un senso di straniamento che si porta dentro fin dall’infanzia.

Attraverso la sua densa messa in scena, che arricchisce le inaspettate risorse artistiche di una città come Philadelphia con lettere nascoste, pesci parlanti, strani sogni, cartoni animati ambigui, e un narratore quanto mai inquietante, Dispatches From Elsewhere rifiuta qualunque narrazione chiara e lineare per scagliando lo spettatore nella stessa realtà alternativa sperimentata dai protagonisti, suggerendogli la stessa fascinazione e la stessa indecidibilità.
Cosa che, naturalmente, è il maggior pregio e il maggior difetto della serie. Pregio perché di prodotti come questo se ne vedono sempre pochi, e Dio solo sa quanto è bello, ogni tanto, buttarsi in qualcosa di cui non si conoscono i contorni ancora prima che parta la sigla. E difetto perché, ovviamente, il livello di interesse per un prodotto del genere è direttamente proporzionale alla capacità di farsi affascinare dalle sue buffe invenzioni e dai suoi coloriti personaggi: se manca quello, se non scatta una qualche curiosità nuda e cruda, “a pelle”, è facilissimo perdersi e non capirci più niente, ripiegando su un bel crime che ha un inizio, uno sviluppo e una fine.
Ecco, l’impressione è che infilarsi nelle pieghe di Dispatches From Elsewhere significhi entrare in una sorta di piccola setta, con pochi adepti-spettatori, che verranno guardati storto da tutti gli altri e che risponderanno sibilando “ah, ma voi non capite”.
Se vi piace far parte di quel tipo di nicchia, è la serie che fa per voi.

Perché seguire Dispatches From Elsewhere: perché è un viaggio strano, diverso dal solito, che potrebbe riservare sorprese inaspettate.
Perché mollare Dispatches From Elsewhere: perché è volutamente assurda e caotica, e per questo ha bisogno di fiducia e impegno.



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