7 Aprile 2020

Tales from the Loop: su Prime Video una vera gemma tra fantasy e fantascienza di Diego Castelli

Tratta dall’arte visiva di Simon Stålenhag, Tales From The Loop ci porta in un mondo di fantascienza emotiva che prende il cuore e non lo lascia più

Pilot

Stavolta evito i soliti giri di parole iniziali: aspettavo con discreto interesse Tales From the Loop, ed è una delle migliori novità di questi ultimi mesi.
Così, secco.
La serie di Amazon Prime Video, creata da Nathaniel Halpern, ha una genesi particolare: invece dei soliti romanzi e fumetti (o, naturalmente, della semplice creatività dei suoi autori), Tales from the Loop nasce dall’omonimo libro di illustrazioni, in cui l’artista svedese Simon Stålenhag, nel 2014, costruì un mondo dove gli anni Ottanta (ma anche Cinquanta) si univano alla fantascienza: le pagine del libro sono infatti piene di immagini in cui misteriosi mecha convivono con trattori e contadini, e dove bambini in bicicletta contemplano la mole maestosa di futuristiche torri metalliche. Sono illustrazioni che non raccontano una storia nel senso classico del termine (non sono fumetti, per l’appunto), ma che funzionano come evocazioni di una narrazione che non esiste, appena abbozzata nell’idea di un acceleratore di particelle costruito sotto una cittadina.
Quello che Prime Video ha cercato di fare, è dare seguito al senso di ispirazione stimolato da quelle pagine, per scrivere una storia effettiva, con un inizio e una fine.
Quello che ne è uscito parte dalla stessa base – un paesello nel cui sottosuolo è stato costruito un centro di ricerca, il Loop, concepito per sondare i misteri dell’universo e dimostrare che quasi tutto ciò che solitamente si ritiene impossibile, non lo è poi così tanto – per costruirci sopra un sistema ordinato di personaggi e una serie di avventure più specifiche, ispirate più o meno direttamente dalle illustrazioni.

Il concept è di per sé molto semplice e abbastanza “furbo”, perché dire che c’è un misterioso centro di ricerca che rende tutto possibile, giustifica il fatto che i personaggi possano imbattersi effettivamente in qualunque fenomeno, che viene così riportato agli insondabili misteri del Loop.
Ma soffermarci troppo sulla giustificazione scientifica dei vari accadimenti è già un modo sbagliato di avvicinarsi alla serie. Tales from the Loop è fantasy, più che fantascienza, e non fa particolari sforzi per immaginare spiegazioni verosimili dei vari fenomeni.
Per esempio, i boschi della cittadina sono popolati da alcuni mech semoventi sulla cui natura non si sa praticamente nulla, nemmeno se sono conseguenza del Loop. Ma questo approccio vale anche per tutto il resto, perché Tales from The Loop non si cura di dettagliare il “come” avvengono le cose, concentrandosi piuttosto sulle loro conseguenze: che si parli di manipolazione temporale, scambi di corpi o misteriosi robot, la sceneggiatura si sofferma sempre sui personaggi, cercando di capire come la loro ordinaria umanità possa rapportarsi alla straordinarietà dei fenomeni che li circondano (perfino l’elemento dello stupore è molto asciugato, perché si dà per scontato che chi abita sopra il Loop sappia che possono succedere cose strane).

In questo la serie condivide qualcosa di Black Mirror, che più che la tecnologia in sé esplora le conseguenze del suo uso, ma le similitudini finiscono qui, perché Tales from the Loop, lungi dal mettere in scena una fantascienza apocalittica o satirica, sceglie un approccio dichiaratamente emotivo, in cui la cornice fantascientifica è quasi un pretesto per amplificare e rendere più chiari certi moti dell’animo, come se piazzare i personaggi in situazioni oltre il limite del fantastico, consenta di esplicitare con più precisione ciò che si agita nelle loro menti.
In questo senso lavora anche la struttura semi-antologica della serie: gli episodi sono in buona parte autoconclusivi, e utilizzano lo spunto fantascientifico per costruirci sopra un ragionamento pienamente umano, una sorta di piccola parabola, ora sull’amore, ora sui rapporti familiari, ora su questioni più concrete come la libertà nella vendita delle armi, ora sul rapporto con noi stessi (e in questo caso, visto dove siamo, “rapporto con noi stessi” significa incontrare un altro se stesso da una linea temporale alternativa).
Non bisogna però pensare alla totale chiusura degli episodi di Black Mirror, in cui cambia completamente ambientazione e cast. In questo caso no, perché c’è sempre un filo sottile ma evidente che lega i vari episodi, che più o meno direttamente (avvicinandosi o allontanandosi) girano sempre intorno alla famiglia di Russ Willard, il fondatore del Loop interpretato da Jonathan Pryce, buon vecchio High Sparrow di Game of Thrones che nel frattempo s’è pure guadagnato una nomination all’oscar per The Two Popes.

Siamo dunque di fronte a una narrazione lieve e ondivaga, come un drone che vola sopra la città e di volta in volta indugia a osservare da lontano questo o quel personaggio, per vedere che gli succede. Il ritmo è lento, l’atmosfera soffusa, e siamo volutamente lontani da una fantascienza violenta o sincopata. Molte macchine sono rotte, abbandonate, come esperimenti non più interessanti per gli scienziati del Loop, ma il loro potere continua ad emanare nella campagna circostante, influenzando la vita di tutti (qualcuno potrebbe lamentare le scarse norme di sicurezza messe in atto nella cittadina, ma vi prego, non fatelo, non è quel tipo di serie).
Siamo insomma più dalle parti del sogno e della fiaba, dove le singole parabole raccontano qualcosa di ognuno di noi, tirando fuori desideri reconditi e paure ancestrali, seguendo strade inaspettate e non predeterminate.

E se fosse tutto qui, devo dire che mi basterebbe. Perché ci sarebbe già abbastanza stile e abbastanza originalità, nel modo di trattare questi temi e situazioni già sondati da altri film e serie, per destare la mia curiosità e stare a guardare questo strano mondo contadino in cui si aggirano robot giganti e relitti quasi magici.
Ma c’è anche qualcos’altro, quello che forse è il vero cuore della serie, nonché delle illustrazioni di Stålenhag. A saltare all’occhio, infatti, è la differenza con cui Tales From The Loop racconta certe “magie”, rispetto a narrazioni più tradizionali. Nella maggior parte dei casi, quando un elemento fantascientifico viene introdotto in un contesto realistico, quello a cui si assiste è la rottura di un ordine, di uno status quo. Un protagonista finisce indietro nel tempo, o diventa una rana, il suo mondo cambia in maniera inaspettata.
Solitamente, l’obiettivo del personaggio è quello di tornare indietro, alla vita precedente, obiettivo che solitamente viene raggiunto, ristabilendo il suddetto ordine (magari con qualche piccolo cambiamento e/o con una nuova consepevolezza). Ecco, in Tales From The Loop questo non succede in maniera automatica, perché gli eventi fantascientifici hanno spesso conseguenze vere, definitive, e cambiano per sempre il mondo dei personaggi.
Quello che ne deriva è un ribaltamento della normale concezione per cui l’essere umano, col suo ingegno e la sua determinazione, può venire a capo di ogni problema e risolvere qualunque situazione, per magica che sia. In Tales From The Loop, gli esseri umani “subiscono” il mondo magico, e spesso hanno il potere di mettere in moto catene di eventi, ma non di controllarle o invertirne il percorso. I personaggi della serie ne escono in questo modo fragili, impotenti, burattini nelle mani di un fato tecnologico più grande di loro, e quello che gli viene chiesto di fare non è impedire il cambiamento, ma comprenderlo e accoglierlo, adattandosi e trovando il modo di crescere.

Tema fondante di Tales From The Loop è il tempo che scorre, che passa “in un batter d’occhio” (frase tormentone dello show), e la massima fascinazione dei personaggi viene proprio da qui, da come il tempo sappia scherzare con gli esseri umani cambiando tutto, ma lasciando anche tante cose come sono, costruendo ragnatele di senso e atmosfere di nostalgia, di rimpianto, ma a volte anche una sensazione di compiutezza, di chiusura del cerchio. Come nel finale di stagione diretto da Jodie Foster, che scioglie i nodi rimasti fino a quel momento in un ultimo saluto delicato e commovente.

Insomma, la serie riesce, con il suo racconto, a mettere in scena le emozioni non espressamente narrative delle illustrazioni, dove Stålenhag costruiva un mondo in cui gli uomini parevano piccole pedine contadine al cospetto di oggetti, creature ed edifici di difficile comprensione. La placida contemplazione dei personaggi di Stålenhag è la stessa accettazione del meraviglioso e dell’insondabile che caratterizza i personaggi della serie, abitanti di un universo che non capiscono fino in fondo, ma con cui devono comunque fare i conti, abitandolo come meglio possono.
E il senso di poesia che ne deriva, il respiro quasi cosmico di questi otto episodi, è senza dubbio una delle cose migliori che poteva capitarmi in quarantena.

Perché seguire Tales From The Loop: perché è una serie poetica, fascinosa, costruita per stupire e per creare interrogativi, ma in un modo molto più originale rispetto al solito.
Perché mollare Tales From The Loop: perché la sua fantascienza è molto labile e volutamente poco rigorosa, cosa che potrebbe far ammattire quelli che in ogni serie devono fare le pulci a tutti i dettagli.



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