4 Dicembre 2020

The Undoing: oh, piaciuta fino alla fine di Diego Castelli

La miniserie di HBO si è confermata un gioiellino fino alle battute finali (comprese)

Copertina, On Air

SPOILER SU TUTTA LA STAGIONE

Non so voi, ma alla fine dell’ultimo episodio di The Undoing (la miniserie di HBO tratta dal romanzo Una famiglia felice di Jean Hanff Korelitz)ho avuto come la sensazione di essere stato… ingannato dalla semplicità, se mi passate questa espressione. E non è necessariamente un’impressione negativa, per quanto sono certo ci sarà chi (legittimamente) non sarà d’accordo.
Il tema alla base del mio straniamento sta nel fatto che, dopo decenni, anzi secoli di gialli e thriller, in cui sono state sondate tutte le possibili combinazioni di colpevoli, quando ci viene proposto un mistero riguardo un omicidio sappiamo già come dobbiamo muoverci: sappiamo di dover sospettare tutti, e valutiamo la possibile colpevolezza di praticamente ogni personaggio piccolo o grande che vediamo sullo schermo, contemplando anche lo scenario in cui il colpevole compaia dal nulla all’ultimo momento.
Da un certo punto di vista, quindi, non ci si stupisce più di niente.

Con The Undoing abbiamo fatto la stessa cosa: un colpevole designato c’era, cioè Jonathan, ma naturalmente noi abbiamo sospettato di tutti, pronti a cogliere qualunque indizio che potesse suggerire una responsabilità diversa, tutti tesi fra il desiderio di essere stupiti e la voglia di poter esclamare “l’avevo detto io!”
E alla fine, però, il colpevole era proprio Jonathan. In qualche modo, la maggior sorpresa del finale di The Undoing sta nel fatto che non c’è alcuna sorpresa, e che quello che all’inizio della miniserie sembrava il colpevole, indicato da indizi piuttosto chiari e creduto tale da buona parte dei protagonisti e dell’opinione pubblica, era effettivamente l’uomo che aveva ucciso a martellate la povera Elena Alves, interpretata dalla nostra Matilde De Angelis.
Allo stesso tempo, però, quella sorpresa/non sorpresa non sarebbe stata particolarmente efficace se non fosse stata sostenuta da una precisa idea di rappresentazione e messa in scena, e da un cast in stato di grazia, che alla fine sono le due vere ragioni (molto più della trama in sé e per sé) per le quali possiamo ritenere The Undoing una delle “cose seriali” più efficaci di quest’anno (e dell’anno prossimo, arriverà su Sky l’8 gennaio).

Interamente diretta da Susanne Bier, che aveva già firmato The Night Manager vincendoci pure un Emmy, The Undoing è prima di tutto una serie ben diretta e ben interpretata. Così ben diretta, e così ben interpretata, che la sua sceneggiatura, tutto sommato abbastanza media, finisce con l’essere poco più che un puntello su cui sfoggiare una bravura prettamente visiva.
Vale la pena partire dalle interpretazioni: supportati da un buon cast di comprimari, fra cui la conturbante De Angelis, il vecchio leone Donald Sutherland, e la glaciale Noma Dumezweni (che interpreta l’avvocata Haley Fitzgerald), a spiccare sono ovviamente Nicole Kidman e Hugh Grant, chiamati a raccontare la storia della coppia granitica e felice che si sfalda sotto le colpe e i segreti.
E giusto per tornare alla semplicità della sceneggiatura, non siamo in presenza di una serie che in qualche modo cerchi di dividere le colpe fra personaggi particolarmente contrastati e sfaccettati, perché a conti fatti i ruoli sono molto più chiari di quello che sembrassero all’inizio: Grace è una donna normale, moglie amorevole e professionista capace, che viene ingannata e presa a pesci in faccia da un marito traditore e assassino.
Eppure, questa apparente banalità viene nobilitata da una Nicole Kidman capace di lavorare benissimo sulle sfumature, evitando quasi sempre lo scoppio emotivo e mostrandoci invece la calma trattenuta della donna intelligente, ben istruita e consapevole dei tumulti dell’animo (in quanto psicologa), ma che non può gestire appieno l’onda di fango (per non dire di merda, sono una persona fine) che le arriva inaspettatamente addosso. Il suo percorso la porta dall’essere una moglie ferita e incazzata, alla compagna che vuole ancora credere nell’innocenza del marito, finendo però, nell’ultimo episodio, a essere soprattutto una madre che, resasi conto dell’effettiva colpevolezza del padre di suo figlio, non può più permettere che lo avvicini. Per questo colpisce molto la sua testimonianza alla sbarra, che in un primo momento sembra un errore da parte sua, quando l’avvocata dell’accusa la costringe a rivelare il passato compromettente del marito, ma in realtà era un modo per liberarsi da una gabbia che ormai sentiva troppo opprimente.

Dall’altra parte, poi, c’è Hugh Grant, se possibile ancora più bravo. Suo infatti il compito di reggere buona parte dell’ambiguità della serie, conquistando il pubblico con il suo viso simpatico e apparentemente innocuo e la sua indole giocosa e paterna, rivelando però a tratti le sfumature della fredda oscurità che si porta dentro. The Undoing non funzionerebbe come funziona se Hugh Grant non fosse in grado, nonostante la quantità di indizi e prove certe a suo carico, di farci effettivamente credere che Jonathan possa essere innocente malgrado tutto. E quando alla fine ogni menzogna viene rivelata, la trasformazione di Jonathan in senso quasi schizofrenico colpisce al cuore perché viviamo la stessa angoscia dei suoi familiari, abituati come ormai eravamo (e come erano loro) a credere alla sua buona fede sulla semplice base dell’espressione del suo viso.
In questo senso, il finale sorprendentemente action, così diverso dai dialoghi fitti fitti e dalle espressioni silenziose del resto della serie, ha proprio la funzione di farci percepire appieno la liberazione del Male dalla gabbia di segreto e buona educazione in cui era stato rinchiuso fino a quel momento. A fine serie ci si chiede quale sia il vero Jonathan, se il padre amorevole e ragazzo traumatizzato di cui l’assassino era una deviazione temporanea, o se invece il vero Jonathan è proprio quello, il sociopatico violento ed egocentrico, che per anni ha semplicemente indossato una maschera. Ai posteri l’ardua sentenza.

Chiudiamo parlando del lavoro della regista, Susanne Bier. La sua migliore intuizione è stata probabilmente quella di cogliere i veri punti di forza potenziali della sceneggiatura. Non tanto le piccole sorprese, che pure ci sono e sono ben posizionate (anche se a volte infastidiscono per la loro successiva inutilità, come il cliffhanger sul video di sorveglianza di Grace, che poi non serve a granché e non ha conseguenze particolarmente significative sull’indagine), quanto piuttosto la forza drammatica di un mistero che emana da un uomo improvvisamente molto più indecidibile di quanto facesse pensare, e di una donna che si trova invischiata in una rete di bugie che distruggono il suo mondo altrimenti perfetto e pacifico. L’insistenza con cui Bier si sofferma continuamente sui volti dei suoi protagonisti, quasi a voler appiccicare la nostra faccia alla loro, ha la funzione di creare un’atmosfera soffocante, dove il nostro occhio è fisicamente addosso ai personaggi, che sono così oggetto di uno scrutare continuo da parte dell’opinione pubblica, degli spettatori e di loro stessi. Le scene migliori di The Undoing sono proprio quelle in cui vediamo non tanto quello che accade, quanto la reazione dei protagonisti (e di Grace in particolare) a quegli stessi eventi, come se il vero spettacolo non fosse il dipanarsi della trama, ma i mille modi in cui quel flusso di fatti può distruggere le certezze e la stabilità dei personaggi come una diga abbattuta da un fiume in piena.

Magistrale, però, anche il modo con cui Susanne Bier gioca con le nostre incertezze e i nostri sentimenti: la scena della morte di Elena, vista in flash back solo nell’episodio finale, è non solo particolarmente cruda e dolorosa, ma anche perfettamente calibrata nel ritmo per farci credere che, in ogni momento, quelle che ci sembrano le prove definitive della colpevolezza di Jonathan possano presto ribaltarsi nelle evidenze della sua innocenza. E invece, ancora una volta, non è così: Hugh Grant è stato messo lì per farci innamorare di lui e per farci sperare fino all’ultimo nella sua salvezza, salvo poi colpirci con la Verità esattamente come il martello colpisce la testa della povera Elena.

Il risultato finale non è il giallo migliore della storia, o il più sorprendente. Anzi, per certi versi, e molto consapevolmente, è il più banale di tutti. È però un racconto incalzante, tesissimo, magistralmente diretto e interpretato, in cui buona parte delle emozioni viene da un continuo giocare e stuzzicare con le nostre aspettative, e con quello che noi crediamo essere il “modo giusto” di costruire un racconto del genere. Una giustezza che evidentemente, in sé e per sé, non esiste, perché dipende dal pubblico a cui ti rivolgi, dalle facce che usi per raccontare la tua storia, e dal momento in cui la racconti.
Con The Undoing HBO ha azzeccato quasi tutto. E non è mica la prima volta.



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