9 Settembre 2022

Echoes su Netflix – La recensione che non volevo scrivere di Diego Castelli

In Echoes, Michelle Monaghan si sdoppia per una serie che vale metà di molte altre.

Pilot

Dovete sapere che io e il Villa abbiamo iniziato questa stagione televisiva con delle precise linee guida in mente. Visto che il mondo seriale è ormai completamente ingestibile in termini quantitativi, ci siamo ripromessi di parlare solo di tre tipi di serie: quelle che ci sono molto piaciute; quelle rilevanti a livello culturale e di notiziabilità, a prescindere dal nostro giudizio; quelle magari un po’ “medie”, ma presenti sulle piattaforme di streaming italiane e che magari raccolgono un certo seguito.

Da questi gruppi rimangono fuori, per esempio, serie anche dignitose ma non ancora arrivate in Italia, oppure prodotti effettivamente presenti nel nostro paese, ma di scarsa rilevanza.
Naturalmente, questo bel progetto può andare incontro a buchi, dimenticanze ed errori, e nemmeno ci garantisce di essere felici di tutto quello che scriviamo.

Per esempio c’è Echoes, miniserie thriller di Netflix che nelle ultime settimane è rimasta nei piani alti della classifica delle più viste sulla piattaforma.
In base ai nostri parametri, è una serie di cui vale la pena parlare. A conti fatti, però, non ne avrei voglia. Ma siccome sono un nerd metodico con qualche piccolo disturbo ossessivo compulsivo non diagnosticato, eccoci qui.

Creata da Vanessa Gazy, alla sua seconda esperienza di creatrice di serie tv dopo un altro show di una sola lettera che inizia per E (era Eden, di cui non abbiamo mai parlato perché non ce n’era motivo), Echoes ha per protagonista Michelle Monaghan, che ben conosciamo per True Detective, The Path e un tot di film che dopo un po’ di gavetta l’hanno portata ad avere una serie tutta per sé, dove interpreta addirittura due personaggi.

Echoes parla infatti di Leni e Gina, due sorelle gemelle che, fin dall’adolescenza, hanno questa simpatica abitudine di scambiarsi le vite, al punto che arrivano a farlo con cognizione di causa una volta all’anno, sostituendosi nel letto del marito dell’altra, condividendo la crescita di una figlia, cambiando lavoro e abitazione fino al prossimo switch.

Questo sarebbe già materiale sufficiente per una storia a sé stante, magari pure per una commedia, ma la faccenda si complica quando una delle due scompare e l’altra deve tornare al paese natio per capire cosa sta succedendo, aprendo un vaso di pandora di segreti, gelosie e casini vari.

Quella che state leggendo è la classica recensione per la quale mi attiro gli insulti. Perché devo parlare fondamentalmente male di una serie che hanno visto molte persone, che magari ci si sono pure divertite, e che non ci stanno a sentire uno che gli dice “brutti sfigati, avete perso tempo”.
E da qui i grandi classici: “Non so che serie hai visto”; “A me è piaciuta, non capisco perché bisogna sempre criticare tutto”; “Non è che dovete fare per forza i bastian contrari”; e quello che è da sempre il mio preferito: “bisognerebbe essere più obiettivi”.

Ecco, io “brutti sfigati” non lo dirò mai, e neanche lo penso, però che Echoes sia una serie un po’ del menga dobbiamo dircelo con grande serenità.

La sua caratteristica migliore, probabilmente, è proprio l’idea di base, questo grumo morboso di gemellanza in cui, partendo dalla peccaminosa condivisione di un fidanzato durante l’adolescenza, si arriva a una vita assurda in cui ci si scambiano mariti e prole.

Come detto, la storia parte da una sparizione, che però non resta tale per l’intera durata della serie, ma che anzi viene risolta prima della metà. Una scelta che lì per lì appare strana, perfino un po’ goffa, ma che si spiega con il fatto che quella sparizione era in realtà solo uno strumento con cui accendere la miccia della faida fra gemelle, perché ovviamente Echoes si basa sul fatto che quello strano accrocchio scambista era lo standard della vita di Leni e Gina, ma viene poi ribaltato e messo in crisi da una serie di altri eventi e decisioni.

Fin qui, insomma, tutto bene. Ci sta che Netflix, di fronte a questo concept, abbia detto “ok, facciamolo”. Anche perché ormai sembra che Netflix dica “ok, facciamolo di qualunque cosa gli arrivi sulla scrivania, quindi perché non questa?

E poi però c’è la messa in scena vera e propria, e qui cominciano le magagne.
Ce ne sono diverse, e di diverso tenore. Di “oggettivo” comunque non c’è niente, quindi mettetevi l’anima in pace.
Uno degli aspetti che Echoes fa fatica a gestire è proprio la presenza contemporanea delle due gemelle, e la necessità di distinguerle l’una dall’altra. Se la loro intercambiabilità dovrebbe essere un problema per i personaggi, non dovrebbe esserlo per gli spettatori, i quali invece sono spesso messi in crisi non tanto dall’aspetto delle protagoniste (in cui giocano un ruolo importante piccole differenze nel trucco e nella pettinatura di Michelle Monaghan), quanto dall’associazione fra personaggio e nome.

Per dirla semplice, Echoes è una serie in cui, specie nella prima metà, si continuano a sentire a rullo i nomi di Leni e Gina, faticando a ricordare quali dovrebbero essere le caratteristiche principali di ognuna, chi sta interpretando quella che stiamo vedendo in quel momento, e chi invece è davvero.
È tutto un Leni ha detto, ma Gina dov’era, hai parlato con Leni, no guarda che io sono Gina, Leni, Gina, Leni, Ciuchino! (cit.)
Verso fine stagione, con il racconto del passato delle due, un po’ di pezzi vanno al loro posto e si riesce a districarsi meglio nella matassa, ma la confusione provata all’inizio, palesemente, non è un espediente narrativo, ma semplice incapacità di dare abbastanza informazioni nel modo corretto.

In aggiunta a questo, ci sono alcuni assunti di base, diciamo gli assiomi della serie, che non funzionano come dovrebbero.
Il fatto in sé che le ragazze si scambino, all’inizio suona stiracchiato, ma poi devo dire che ci si crede, in un modo o nell’altro. Questo perché scoprire il passato delle due ci permette di avere un quadro più chiaro dell’intensità del loro rapporto, e rende quindi meno inverosimile l’insorgenza di qualcosa di davvero strano per tutti noi. Una cosa tipo “a te non verrebbe mai in mente, ma ti mostro perché la cosa è verosimile per questi due personaggi”.

Il che è un bene, naturalmente, anche se rimangono margini di dubbio che spezzano un po’ la tensione. Per esempio, il fatto che Leni (per quello che sappiamo di lei) ogni anno rinunci per dodici mesi a guardare la figlia crescere, mah, lascia francamente un po’ interdetti.

Ma a pesare molto più di questo è la totale ingenuità degli altri personaggi. Io capisco che alla base di questa storia ci sia l’incapacità di padri, mariti e figli di accorgersi che la persona che hanno accanto è cambiata dalla sera alla mattina, però questa è un’idea così tosta, che va costruita e venduta nel miglior modo possibile. Questo non succede come dovrebbe, e in troppe occasioni ci si trova a chiedersi come sia plausibile che un marito, un padre, una figlia, non riconosca uno scambio in cui sì, i geni sono gli stessi, ma la persona che è arrivata non può aver assorbito l’esperienza dell’anno precedente con un aggiornamento di un’oretta in una camera d’albergo.

Echoes è insomma una serie che parte da un materiale narrativo stuzzicante ma che, come spesso accade con le serie di questo livello medio-basso, semplicemente non lo sa gestire. Il risultato è che tutta la struttura vacilla visibilmente, e la sospensione di incredulità che dovrebbe servire agli spettatori per farsi coinvolgere dalla narrazione, è continuamente spezzata da momenti che fanno scuotere la testa dicendo “beh però questa è una sciocchezza”.

Facile prevedere, dunque, che i molti twist che punteggiano la trama suonino forzati, casuali, e soprattutto non adeguatamente emozionanti, perché non riusciamo a essere “dentro” la storia come dovremmo.

E se questi sono principalmente problemi di scrittura e in parte di recitazione, sotto l’aspetto visivo non c’è di molto meglio.

Intendiamoci, non stiamo guardando House of The Dragon e Rings of Power, nessuno si aspetta chissà che virtuosismi da un thrillerino.

Allo stesso tempo, però, proprio la natura particolare della trama di Echoes, con due personaggi identici, interpretati da una sola attrice, poteva fornire lo spunto per qualche soluzione creativa, qualche transizione che riuscisse a sorprendere. Da questo punto di vista, invece, c’è poco o nulla, con Michelle Monaghan che ogni tot cambia pettinatura ammiccando come a dire “hai visto, ora li frego tutti con un colpo di spazzola, senza neanche un paio di occhiali”. E Clark Kent muto.

Soprattutto, c’è la scena del fiume. Non la spoilero neanche, basti sapere che a un certo punto c’è una scena importante e drammatica ambientata in un fiume, vicino a una cascata, e il livello del green screen è così basso, l’evidenza dell’effetto speciale così pacchiana, che tutta la presunta emozione del momento si scioglie come neve al sole.
Davvero non si poteva girare in esterni questa scena? Davvero non si poteva trovare un fiumiciattolo in cui far arrivare l’acqua al ginocchio del cast senza che ci fossero rischi? Davvero i costi sarebbero lievitati così tanto? Non lo sapremo mai, intanto però ci becchiamo una delle scene più posticce del recente passato.

Insomma, si salva poco.
Echoes appartiene a quel genere di prodotti medi(ocri) che Netflix ormai produce a ciclo continuo e che possono anche far venire di voglia di “vedere come va a finire”, ma che poi, quando effettivamente ci hai speso quelle 8-10 ore di vita, ti fanno pensare al fatto che quella vita scivola via molto più velocemente di quello che vorremmo, e che quelle dieci ore potevano davvero essere spese per qualcosa di meglio, fosse anche, molto banalmente, una serie tv di livello più alto.

Poi oh, se invece mi dite che in Echoes c’è Matt Bomer, e che guardare Matt Bomer sullo schermo è sempre e comunque un’attività meritevole, potreste anche avere ragione.

Perché seguire Echoes: per la premessa interessante.
Perché mollare Echoes: quella premessa è sviluppata in modo confuso e con mezzi tecnici molto modesti.



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