7 Novembre 2023

All the Light We Cannot See su Netflix – Quanto spreco… di Diego Castelli

Un romanzo premiato, autori d’eccezione, uno scenario affascinante, tutto buttato via per inseguire il mainstream più facilone

Pilot

In teoria c’era davvero tutto per fare bene. Un romanzo vincitore del premio Pulitzer, scritto da Anthony Doerr. Uno sceneggiatore come Steven Knight, creatore di Peaky Blinders. Un regista esperto come Shawn Levy (Notte al museo, Free Guy e molti altri). Un formato a miniserie, in soli quattro episodi, che prometteva asciuttezza e precisione. La presenza di un paio di facce amatissime come Hugh Laurie (buon vecchio dottor House) e Mark Ruffalo.
Insomma, All The Light We Cannot See poteva farsi amare bene e in fretta.

Purtroppo, però a rovinare tutto arriva questo funesto, preoccupante, fastidioso-anche-perché-forse-necessario, nuovo corso delle piattaforme di streaming, sempre più interessate a prodotti larghi e facilmente accessibili, che possano ingolosire anche un pubblico molto generalista che finora non ha mai considerato di staccarsi da Rai Uno o dalla BBC o dalla CBS.
E noi che invece ci siamo fatti il palato fine in anni e anni, rimaniamo fregati.

All the Light We Cannot See segue le storie parallelle (ma ovviamente destinate a incrociarsi) di due giovani situati su schieramenti opposti della Seconda Guerra Mondiale.
Marie-Laure (Aria Mia Loberti) è francese, è cieca, e prova come può ad aiutare la resistenza con trasmissioni radio in cui cerca di tenere alto il morale dei compatrioti, forse passando anche qualche informazione in codice. Ha perso contatto con i familiari (Mark Ruffalo e Hugh Laurie sono rispettivamente suo padre e suo zio) ma non vuole cedere alla barbarie nazista.
Werner Pfennig (Louis Hofmann, il Jonas di Dark) è invece un giovane ragazzo tedesco, costretto a combattere per il Terzo Reich e specializzato proprio nell’analisi delle frequenze radio.

Sì insomma, Werner è quello che dovrebbe catturare Marie, anche se naturalmente al solo sentirla parlare sente tutto un brividone adolescenziale che gli corre giù per la schiena. Brividone che si accompagna alla paura per i capi nazisti che gli stanno sul collo e vedono in Marie una nemica da eliminare a tutti i costi.
Fra questi spicca Reinhold von Rumpel (Lars Eidinger), esperto d’arte e interessato a recuperare un prezioso gioiello di cui Marie (tramite il padre) potrebbe conoscere l’ubicazione.

Bastano pochi minuti per rendersi conto del primo, enorme problema di All the Light We Cannot See: parlano tutti in inglese. La ragazza francese parla in inglese, in inglese alla radio e in inglese con gli altri francesi. E il ragazzo tedesco parla inglese, in inglese con gli altri soldati nazisti, e poi in inglese con Marie.

Per essere chiari: è del tutto normale che in una serie o un film americano ci siano dei personaggi teoricamente non anglofoni che parlano inglese. Un inglese che non è percepito come tale dai personaggi, naturalmente, ma solo da chi guarda.
Il problema, però, è che siamo nella Seconda Guerra Mondiale, un momento in cui lo scontro fra popoli, nazioni, culture, e ovviamente anche lingue, è non solo ovvio dal punto di vista storico, ma anche fondamentale in termini simbolici e narrativi.

A prescindere dall’inglese in sé e per sé, uno spettatore/spettatrice anche solo vagamente consapevole non può accettare che una ragazza francese e un soldato tedesco parlino la stessa lingua, senza che la cosa venga tematizzata in alcun modo, come se nulla fosse, come se fossimo in Vacanze di Natale ’95, dove Luke Perry parlava la stessa lingua di Massimo Boldi e nessuno batteva ciglio.

Questa scelta, sciatta e poverissima, è stata fatta con un solo obiettivo, cioè quello di rendere la miniserie il più accessibile possibile, appiattendo l’intera narrazione sulla storia e gli occhioni della protagonista, rendendola una favolona (o favoletta) in barba a qualunque altro dettaglio appena più approfondito.

Naturalmente non è finita qui, e quell’orrore linguistico è accompagnato da molte altre scelte che vanno nella stessa direzione.
La sceneggiatura è retorica e pomposa, si percepisce il costante tentativo di tirare fuori frasi ad effetto, favorite dal contesto storico ormai stra-codificato anche nel cinema e nella letteratura.

La messa in scena è molto teatrale, a tratti melodrammatica, con set piuttosto finti e chiusi intervallati da riprese a volo d’uccello realizzate con una CGI che fa il suo lavoro di impatto, ma contrasta comunque parecchio con l’esilità di certi interni. Si sprecano i primi piani struggenti.

La resa di von Rumpel, il tedescono cattivo, è estremamente caricata e stereotipata, un wannabe Cristoph Waltz senza averne la capacità, ma soprattutto senza riguardo per il contesto, che non è un film di Tarantino e non avrebbe bisogno di questo genere di caricature (che bisogna anche saper fare).

Ciliegina sulla torta, in molti punti Marie ci vede.
No, non nel senso che riacquista la vista, ma nel senso che, per questioni di resa drammatica, era necessario che l’attrice piazzasse qualche sguardo “un po’ più vero” su paesaggi o su persone, per costruire un maggiore coinvolgimento emotivo.

Siamo punti e a capo però, come la storia della lingua: se è cieca e guarda nel vuoto perché è cieca, deve guardare sempre nel vuoto, a meno di costruzioni davvero particolari di specifiche. Non è che puoi decidere tu a caso quando questa ha lo sguardo da persona che ci vede, solo perché hai deciso che così viene meglio nelle riprese.

L’impressione è che All the Light We Cannot See sia già un punto altissimo (o bassissimo) di questa ricerca di generalismo che stiamo vedendo un po’ in tutte le piattaforme (altri esempi recenti su servizi di streaming concorrenti sono I Leoni di Sicilia e Everybody Loves Diamonds).

Il tentativo è quello di trovare storie che siano accessibili a tutti, che poi vengono messe in scena con pochissima volontà di sperimentare, ma anche colpire, stordire, generare emozioni che non siano un intrattenimento placido e semplice.

Non è un delitto, e non è nemmeno una scelta che, da un punto di vista commerciale, non si possa capire (come già fatto nel nostro podcast, vi segnalo questo bell’articolo del Post sulla progressiva rarefazione delle “grandi serie”). Però non è un approccio che qui a Serial Minds possiamo condonare facilmente, non quando le piattaforme, negli ultimi anni, hanno spesso rappresentato l’avanguardia di ciò che di nuovo e meritevole poteva essere mostrato da un racconto audiovisivo a puntate.
Ci scuseranno le persone che, legittimamente, si appassionano a una cosa come All the Light We Cannot See, se diciamo che le belle serie tv sono veramente un’altra cosa.

Perché seguire All the Light We Cannot See: cercate un raccontone puccioso e da vedere mezzi addormentati.
Perché mollare All the Light We Cannot See: fare un racconto popolare e per tutti non dovrebbe voler dire cedere alla sciatteria.



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