28 Febbraio 2012 3 commenti

Prisoners’ Wives – Il carcere dentro e fuori di Marco Villa

Un’altra serie inglese tosta e tesa.

Brit, Copertina, Pilot


Siete mai stati in carcere? Io due volte, per fortuna da libero visitatore: la prima per delle riprese di un film ai tempi dell’università, la seconda per il colloquio di lavoro più assurdo che abbia mai fatto. È una situazione angosciante: mille controlli, porte che si aprono e si chiudono, armadietti da riempire con telefoni e aggeggi vari. E dentro ci si sente staccati dal mondo: altri ritmi, altri tempi, tutto sembra tirato all’inverosimile. Esperienza parecchio forte, anche considerando il fatto che ero consapevole che sarei rimasto legato a quel posto per poche ore e che non ero lì per incontrare qualcuno. Nessun trasporto emotivo, insomma. Ecco, pensare di entrare in quel posto e di trovare lì dentro qualcuno a cui si tiene, beh, è davvero grossa.

Questo, a caldo, quello che mi è tornato in mente guardando il primo episodio di Prisoners’ Wives, serie inglese in onda su BBC One. Come avrete forse vagamente intuito dal titolo, racconta le vite di alcune mogli di carcerati. Punto. Tutto qui. La semplicità del concept, però, non deve trarre in inganno, perché a partire da questo spunto, le possibilità di racconto sono enormi.

Ci sono le storie dei tre carcerati principali: il poveraccio spiantato che spacciava, il narcotrafficante con il villone, quello che ha commesso un errore che rimpiangerà per tutta la vita. Tre storie che normalmente sarebbero centrali, ma che qui, già dal nome della serie, diventano lo sfondo, il contesto. Centrali sono infatti le vicende delle tre donne sposate ai carcerati di cui sopra. Di nuovo, tre personaggi estremamente diversi: la ragazza che vive di espedienti e di piccolo spaccio in periferia e ha come obiettivo principale la salvaguardia del figlio, dalle brutture del carcere e dalla situazione del padre; la matrona orgogliosa dei propri soldi, sfacciata e senza il minimo senso di colpa per come il marito li ha guadagnati; la giovine incinta che si ritrova catapultata da un giorno all’altro in una situazione in cui mai avrebbe pensato di trovarsi.

È quest’ultima, con la sua prima – traumatica – visita in carcere al marito, a introdurci nel mondo di Prisoners’ Wives. Un mondo che, già dalla prima puntata, si presenta privo di semplificazioni morali a uso e consumo del pubblico. Non stiamo seguendo le storie di innocenti ingiustamente accusati, di vittime della legge cattiva cattiva e spietata con i pori cristi. No, le tre famiglie in questione sono famiglie in cui gli uomini hanno sbagliato e stanno pagando. Come già accaduto in Public Enemies, non ci sono buonismi e in questo caso il carico di responsabilità su chi ha sbagliato diventa ancora più pesante, per il fatto che ci si trova a seguire le vicende di chi con quegli errori non aveva nulla a che fare, eppure sta pagando. Lontana dalla violenza di Oz e dalla claustrofobia di Prison Break, Prisoners’ Wives prende il carcere come spunto per raccontare un punto di vista diverso, ma ugualmente di grande impatto. Se si vuole avanzare una critica, questa può essere sul fatto che una logica come quella delle mogli dei carcerati fa un po’ anni ’50 con il capofamiglia masculo e le donne a ruota, ma si tratta di una critica che viaggia sul filo del pretestuoso.

Prisoners’ Wives non è una serie facile. È tesa, angosciante e per nulla leggera. È scritta bene e scorre senza nessun intoppo, nulla da dire da questo punto di vista, ma – per l’ennesima volta in riferimento a una serie inglese – non è per tutti. L’argomento è tosto ed è trattato senza sconti: si parla di situazioni difficili, sullo sfondo di una presenza spersonalizzante e incombente come quella del carcere. Del resto nessuno si nasconde: una serie che si chiama Prisoners’ Wives la propria durezza te la sbatte in faccia e non la nasconde in alcun modo. Dentro o fuori, a voi la scelta: il pilot merita fiducia.

Perché seguirlo: perché è un ennesimo passo avanti della serialità inglese nel campo dei prodotti difficili e sociali

Perché mollarlo: perché non lascia grandi appigli di leggerezza



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