30 Dicembre 2017 17 commenti

Black Mirror – La recensione della 4×01: USS Callister di Diego Castelli

Al primissimo impatto, il ritorno di Black Mirror è una maledetta figata

Copertina, Olimpo, On Air

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SPOILER SU TUTTO L’EPISODIO

Se dovessi giudicare la quarta stagione di Black Mirror dal suo primo episodio (e mentre scrivo queste righe ho visto solo quello), non potrei che dire “tanta roba”.
E non solo per le qualità più ovvie e superficiali che, giusto per toglierci il pensiero, potremmo elencare una dopo l’altra: l’alto livello produttivo, con buoni effetti speciali e una ricchezza visiva evidente; il citazionismo appassionato di Star Trek, specie nella primissima scena esageratamente vintage; il cast di ottimi attori fra cui Jesse “Matt Damon Cattivo” Plemons, Cristine Milioti di How I Met Your Mother e Jimmi Simpson di Westworld; una trama efficace e un ritmo sempre alto; il fatto che sia un episodio in qualche modo concentrico, che unisce la sua cornice da fanta-thriller con elementi più semplici, action e fiabeschi, che lo rendono beh, un’effettiva puntata di Star Trek.

Ma dove “USS Callister” funziona davvero è il piano filosofico ed etico, quello su cui Black Mirror ha costruito la sua fortuna di serie non solo curiosa o divertente, ma anche inquietante, che sa prendere le storture e le contraddizioni del nostro quotidiano vivere tecnologico, per trasformarle in una loro versione iperbolica che le renda più evidenti, lasciandoci quindi storditi di fronte allo specchio – tipicamente con in mano il cellulare o qualche altro pezzo di tecnologia – a chiederci “ma io sono davvero così?”

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Vale la pena riallacciarci brevemente al concept dell’episodio.
Protagonista è Robert Daly, talentuoso programmatore e co-fondatore di un’azienda capace di sviluppare il videogioco definitivo, Infinity, concepito per trasportare i propri utenti in un universo virtuale sostanzialmente indistinguibile (per sensazioni e immersione) dalla realtà fisica.
Siamo nel solco tracciato da Matrix e proseguito da tanti altri film ed episodi seriali.
E sempre abbastanza tradizionale è la descrizione iniziale di Daly, un uomo frustrato e vagamente bullizzato sul lavoro per cui provare immediata simpatia. Perché è un nerd sfigato in cui è facile immedesimarsi, e per il quale si fa subito il tifo quando in ufficio arriva una nuova assunta che mostra di avere per lui un’ammirazione che gli altri suoi colleghi non si sono mai sognati di coltivare.
C’è abbastanza materiale per una bella storia d’amore, e per un’avventura virtuale che permetta al povero Robert di trovare riscatto prima dentro Infinity, e poi nella vita reale. C’è insomma tutto quello che serve per una cosa che… abbiamo già visto tante volte.

Black Mirror

Solo che questa è Black Mirror, ed ecco che arriva il twist. Per sfogare le sue frustrazioni e vendicarsi delle angherie subite quotidianamente, Daly ha creato una versione personale del gioco, non collegata in rete, nella quale può diventare il capitano della nave che dà titolo all’episodio, la stessa del suo teleiflm preferito, vestendo i panni dell’eroe carismatico e onorevole i cui sottoposti adoranti hanno le facce dei colleghi che lo trattano male in ufficio.
Ok, comincia a diventare un filo disturbante e vagamente masturbatorio, ma ci possiamo ancora stare.
Ma ecco una nuova accelerata. I personaggi che accompagnano Daly nelle sue scorribande spaziali sono copie digitali e perfino genetiche delle loro controparti reali. Rubando il DNA dei colleghi, insomma, Daly è riuscito a creare dei doppelganger che non sono semplicemente simulazioni, ma vere e proprie intelligenze senzienti che ubbidiscono al loro Dio umano non tanto per loro natura, quanto per la paura delle inevitabili ripercussioni in caso di ribellione.

E qui “USS Callister” diventa un puntatone. Quello che la prassi cine-seriale ci aveva descritto come l’inevitabile buono della situazione è in realtà il cattivo, mentre i buoni, quelli per cui parteggiare davvero, diventano i personaggi ricreati nel mondo virtuale, che sotto la guida dell’intraprendente ultima arrivata mettono a punto un ardito piano per fregare Daly al suo stesso gioco e poter così vincere il loro meritano premio, cioè l’eutanasia, la cancellazione totale da un mondo che, per loro, significa solo sofferenza.
(Fra parentesi, a segnare la differenza sempre abbastanza percepibile fra il Black Mirror inglese e quello americano, c’è il fatto che in quest’ultimo i personaggi arrivano al momento dell’annunciato suicidio solo per scoprire che suicidio non è, e che anzi a quel punto si apre per loro una nuova, entusiasmante vita videogiocosa, giusto rovinata qui e là dalle infantili minacce di giocatori con la voce di Aaron Paul; il Black Mirror inglese probabilmente li avrebbe fatti morire e basta, a voi la scelta della versione migliore).

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In questa sorprendente inversione di ruoli, una sorta di ribaltamento di Matrix in cui le macchine sono le persone carine da proteggere e gli umani i malvagi che vogliono sfruttarle, lo sceneggiatore William Bridges (già firma della della 3×03 di Black Mirror, l’ansiogena “Shut Up and Dance”) sembra porci una domanda fondamentale: quanto è malvagia la natura umana? E qual è il limite oltre il quale quella malvagità può essere riconosciuta e certificata?
Da un punto di vista penale, Daly probabilmente non fa nulla di così tragico: ha costruito un gioco, l’ha popolato di intelligenze artificiali, e ci sfoga dentro un po’ di stress e frustrazioni. Niente di così inusuale, è capitato a tutti i videogiocatori (ciao, eccomi) di ammazzare orde di mostri e umani in ugual modo, giusto perché era divertente vedere quanti modi gli sviluppatori avevano concepito per squartare la gente.
Ma oltre l’ambito strettamente penale, agli spettatori di “USS Callister” è del tutto evidente che Daly sia una persona malvagia, un assassino che, alla fine, merita addirittura la morte.
Pensiamoci bene per un momento: a conti fatti, abbiamo gioito alla morte di Daly perché è un videogiocatore rancoroso. Formalmente non è niente più di questo.

Allo stesso tempo, è molto più di questo perché abbiamo toccato con mano l’intrinseca umanità dei personaggi che aveva costruito e schiavizzato, un’umanità di cui fatichiamo a delineare i contorni precisi, ma che sentiamo ugualmente, principalmente perché riconosciamo a quei personaggi la capacità di soffrire in maniera indipendente da noi. L’indifferenza di Daly nei confronti del dolore altrui, seppur simulato, è per noi indice di malvagità, e guardando questo episodio non possiamo avere alcun dubbio in merito, perché la regia di Toby Haynes ci trascina inevitabilmente in quella direzione.
Ma Black Mirror, abbiamo detto, è un’iperbole, e come tale serve a rendere chiari concetti che nella vita di tutti i giorni magari non lo sono, e che proprio grazie a quell’iperbole vengono illuminati da una luce inaspettata.
In questo senso, l’iperbole di “USS Callister” si applica a praticamente tutta la nostra vita social-tecnologica. Una vita in cui moltissime persone sfogano su internet il proprio rancore e le proprie idiosincrasie, nell’assoluta (anche se spesso inconscia) convinzione che l’odio vomitato in rete sia “meno grave” di quello esibito faccia a faccia. Una vita in cui l’assenza di corpi da toccare o annusare, sostituiti da numeri e foto al telegiornale, cambia drasticamente la percezione della gravità degli eventi e ci porta a una progressiva de-sensibilizzazione in base alla quale due morti sotto casa nostra sono evidentemente più importanti di cento vittime delle bombe in Siria.
E si potrebbe andare avanti.

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Quello di “USS Callister” non è un discorsetto di facile retorica, quella che invece sto rischiando io dovendone discutere a parole. È però la perfetta messa in scena della nostra etica contemporanea, ormai pericolosamente fluida e soggetta a mode e cambiamenti, un modo di stare al mondo che rifugge il confronto diretto e l’assunzione di responsabilità, e predilige il rifugio sicuro dietro schermi e fibre ottiche, ma che paradossalmente non ci mette al riparo dal veleno e dall’oscurità.
Attenzione, sembra dirci “USS Callister”, se sei una merda dentro, sei una merda anche se fai la personcina educata quando incontri la gente al supermercato. E se sei una merda dentro, prima o poi lo sterco viene fuori da qualche parte, e potresti finirne soffocato.

(Poi non vuol dire che non ci possa divertire con un po’ di sana violenza videoludica, però ecco, cerchiamo di rimanere presenti a noi stessi, consci del nostro ruolo nel mondo, e soprattutto consci del ruolo degli altri. Altrimenti blam, distopia)

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