17 Aprile 2018 4 commenti

Station 19 – Lo spin-off di Grey’s Anatomy dedicato ai pompieri di Marco Villa

Dai medici ai pompieri, ecco Station 19, la nuova serie dalla creatrice di Grey’s Anatomy Shonda Rhimes

Copertina, Pilot

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“Cara Shonda, tutto questo un giorno sarà tuo”. A naso, anni fa un dirigente ABC deve aver detto così alla nostra amica Shonda Rhimes, mostrandole l’intero palinsesto. E Shonda Rhimes l’ha preso in parola, colonizzandolo in lungo e in largo. Prima di abbandonare il network per passare a produrre per Netflix, ci ha tenuto a mettere l’ennesimo pezzo firmato nella collezione di ABC, un pezzo che porta il nome di Station 19.

Station 19 è una nuova serie di ABC in onda dal 22 marzo (e dal 23 aprile su FoxLife). Creata da Stacy McKee è in realtà parte dell’universo tentacolare di Shonda Rhimes. Station 19 è infatti uno spin-off della madre di tutte le Shondate, ovvero Grey’s Anatomy. Dopo il successo di Private Practice, in cui il personaggio di Addison Montgomery (Kate Walsh) veniva estratto dal Seattle Grace Hospital e paracadutato in una clinica privata di Los Angeles, alla ABC hanno tentato di fare il bis. In questo caso, però, il personaggio che fa da ponte tra le due serie non decide solo di cambiare ospedale, ma di cambiare vita, passando da chirurgo in carriera a vigile del fuoco novellino.

Il personaggio in questione è Ben Warren, marito di Miranda Bailey in Grey’s Anatomy e interpretato da Jason George. A differenza di quanto accaduto con Private Practice, però, il profugo da Grey’s Anatomy non è protagonista della nuova serie: al centro di Station 19 c’è infatti il personaggio di Andrea Herrera (Jaina Lee Ortiz, da Rosewood), talentuosa pompiera e figlia d’arte, che lavora nella stessa squadra del padre. Nella serie, il loro rapporto lavorativo dura poco: nel pilot il padre ha un malore durante un intervento e per questo deve dimettersi dal ruolo di capitano. E qui inizia tutta la vera faccenda, perché Andrea, Andy per i colleghi, vuole tantissimo quel posto e deve giocarselo con Gibson, compagno di brigata e amante. Et voilà, ecco servito il classico incastro sentimental-lavorativo che è alla base di tutte le serie Made in Shondaland.

Se l’impostazione non è certo una novità, Station 19 non è però nemmeno un clone degli altri prodotti della fabbrica di famiglia. Il cambiamento principale sta senz’altro nel mostrare personaggi che non sono delle reclute senza esperienza di fronte al primo lavoro. Al contrario: nella squadra non ci sono ragazzini impulsivi che non vedono l’ora di emergere, ma professionisti esperti che si trovano di colpo senza il proprio mentore. Se pensate a Grey’s Anatomy, a How To Get Away With Murder, ma anche alla recente For The People, si tratta di una vera rivoluzione.

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Di fatto, l’unico novellino è il più vecchio di tutti, ovvero quel Ben Warren che rappresenta il collegamento con Grey’s Anatomy e che è anche l’anello debole della faccenda. Il suo personaggio è infatti del tutto inverosimile, sia per la decisione di cambiare carriera che è alla base di tutto, sia per il modo in cui viene raccontato il suo percorso: se fosse stato il protagonista, avrebbe avuto ancora un senso, ma piazzato nel cast come uno dei tanti, per giunta quasi bullizzato dai colleghi perché è un vecchio che non sa fare niente, arriva a un livello di non-credibilità che al confronto i draghi di Game of Thrones sono puro neorealismo.

In quest’ottica, appare ancora più incomprensibile il suo utilizzo nelle scene di crossover che si verificano nel primo episodio: Warren non è mai al centro dell’azione e l’unico momento in cui entra in contatto con gli ex colleghi lo vede fuori dall’ospedale, quando mostra alla moglie il suo nuovo posto di lavoro.

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La sensazione, insomma, è quella di un lavoro lasciato a metà, come se nemmeno gli autori fossero davvero convinti della necessità di stabilire un collegamento con Grey’s Anatomy. Certo, vedere apparire Meredith Grey nel pilot è un biglietto da visita che probabilmente vale diversi punti di share, ma per il resto è il caso di considerare Station 19 un prodotto a sé, del tutto autonomo. Da questo punto di vista, si può parlare di una serie che appare solida, salda nel suo essere un prodotto di genere che vivrà di casi al limite e di difficili rapporti personali e lavorativi: ci sentiamo di scommettere sul fatto che non raggiungerà mai picchi di incontenibile bellezza, ma allo stesso tempo sarà comunque soddisfacente per chi cerca 40 minuti di procedurale che non lasci strascichi emotivi e non obblighi a sforzarsi più di tanto durante la visione.

Perché guardare Station 19: perché con Shonda Rhimes si viaggia sempre su meccanismi narrativi oliatissmi

Perché mollare Station 19: perché speravate fosse un vero spin-off di Grey’s Anayomt e invece niente.



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