20 Settembre 2018 5 commenti

Bojack Horseman: la qualità debordante della quinta stagione di Diego Castelli

Siamo al quinto anno, eppure Bojack Horseman non cala di una virgola, e rilancia pure

Copertina, Olimpo, On Air

Bojack Horseman (6)

QUALCHE PICCOLO SPOILER, MA NIENTE CHE VI ROVINI L’ESPERIENZA

Lo dico subito: scrivere una recensione esaustiva della quinta stagione di Bojack Horseman è quasi proibitivo, almeno per me: un po’ per la densità dei tredici episodi, e un po’ per la volontà, a così pochi giorni dall’uscita, di non esagerare con gli spoiler per chi non avesse ancora fatto in tempo a vederla tutta.

Però bisogna provarci lo stesso, non fosse altro che per consigliare ancora una volta la visione a chi, testardamente, non fosse ancora riuscito a superare lo scoglio-animazione per tuffarsi dentro questo pazzo mondo di cavalli, cani, gatti e salamandre.
Se vi è capitato di storcere istintivamente il naso di fronte a certe dichiarazioni roboanti su Bojack, state pronti a storcerlo di nuovo, perché sì, dal punto di vista della scrittura Bojack Horseman è forse la miglior cosa a puntate che potete trovare al momento in televis… sullo schermo. Se non è la prima, siamo comunque nelle prime posizioni. E considerando che siamo alla quinta stagione, bisogna tirarsi giù il cappello di fronte a gente che dopo cinque anni è ancora qui a scrivere sceneggiature così dense, divertenti, malinconiche, significanti.

Bojack Horseman (2)

È una stagione in cui quasi tutti gli episodi meriterebbero un approfondimento a sé stante, che non abbiamo il tempo di fare, ma possiamo comunque ricostruire un filo conduttore tematico e narrativo. L’intera stagione gira intorno al nuovo progetto lavorativo di Bojack, la serie Philbert che non è altro che l’ennesimo poliziesco americano con un protagonista fascinoso e tormentato, scritto da un tizio bianchiccio e con le occhiaie che crede di essere il nuovo Kubrick e non fa nulla per nasconderlo.

Attorno a quel nuovo show, in maniera più o meno diretta, si incastrano episodi più orizzontali e altri più verticali, che continuano a lavorare, come da anni a questa parte, sul tentativo del protagonista di trovare un posto nel mondo in cui sentirsi, se non proprio felice, quanto meno adeguato.
Un disagio che colpisce anche i personaggi di contorno, che spesso “di contorno” non sono: Diane deve fare i conti con la fine della relazione con Mr. Peanutbutter, mentre lo stesso gioiosissimo cane è messo di fronte al fatto che continua a cambiare moglie, senza riuscire a scoprire perché continua a perderle; Todd cerca di gestire la sua asessualità, dando vita a surreali ribaltamenti delle classiche prospettive sessuali da sitcom; Princess Carolyn passa l’intera stagione a dibattersi nel desiderio di maternità adottiva, funestato dalla paura di non essere adeguata al compito, o forse nemmeno così desiderosa di affrontarlo.
Ognuno di questi temi fluisce all’interno degli episodi con cadenza e forza variabili, a volte restando sottotraccia di un’altra trama principale, altre volte prendendo con forza la scena.
L’impressione, però, è sempre quella che le cose importanti arrivino quando devono arrivare, e che ci sia sempre spazio per la sperimentazione e per la forzatura ragionata.

Bojack Horseman (8)
Strepitoso, in questo senso, il sesto episodio. Mi permetto di farvi uno spoiler, perché tanto la cosa importante di Bojack non sono certo le sorprese: praticamente tutta la puntata, prologo a parte, è un unico, ininterrotto monologo di Bojack al funerale della madre. Del rapporto quantomeno conflittuale fra i due già sapevamo, e la morte improvvisa di lei, di cui vediamo poco e niente, diventa motivo di una riflessione-fiume personalissima e mai noiosa, in cui il nostro cavallone complessato ragiona su di sé, sui propri desideri, sui propri rimpianti.
La morte di un genitore, nella finzione come nella vita, diventa quasi sempre un momento di bilancio personale, e gli autori di Bojack Horseman decidono di andare all in, con un episodio straordinariamente focalizzato in cui la teorica morale della vicenda – “si può contare solo su stessi” – è in realtà una morale sbagliata, nonché la fonte di tutti i problemi di Bojack, la cui difficoltà a relazionarsi in modo sano con le altre persone è sostanzialmente la base dell’intera serie.

Bojack Horseman (1)

Se questo rimane un episodio in qualche modo autoconclusivo, che pure riverbera su tutti gli altri, c’è un tema attualissimo che ricorre più volte nel corso della stagione, che evidentemente è stato aggiunto “a forza”, seguendo la cronaca, ma che è stato inserito splendidamente nella struttura della serie.
Parliamo del tema delle molestie, del post-Weinstein, del tentativo di cambiare un mondo, quello hollywoodiano, in cui lo sfarzo della superficie ha troppe volte nascosto il luridume.
Era forse inevitabile che una serie come Bojack Horseman, ambientata fra le altre cose dietro le quinte dell’industria hollywoodiana, prendesse di petto la questione, ma nemmeno nei nostri più rosei sogni potevamo immaginare un tale livello di densità, acume e precisione.
Gli episodi che trattano la questione in modo più evidente sono due, il quarto e l’ultimo, e a strappare l’applauso è la capacità, da parte degli autori, di cogliere tutti i punti di vista della vicenda, tutte le sfumature, nella costruzione di un discorso mai urlato, mai dogmatico, ma sempre in divenire.

Bojack Horseman (7)

Ecco allora la condanna, senza sconti, non solo per chi commette molestie di vario genere sul lavoro, ma anche una riflessione su quanto l’attuale narrazione hollywoodiana sia più o meno consapevolmente complice nella “normalizzazione” di comportamenti sbagliati, giustificati con il genio o con la fragilità. Allo stesso tempo, però, la serie di Netflix mette in scena un’impietosa rappresentazione della versione peggiore del femminismo, quella spettacolarizzata, quella per cui l’urlo femminista di un attore famoso in tv, quale che siano il contenuto e le circostanze, ha più valore di una qualunque discussione seria sul tema.
Con lo stesso, difficilissimo doppio sguardo, gli autori trasformano in molestatore il loro protagonista, e ci mostrano gli errori che possono portare a una condotta scorretta lasciando aperta una porta per la redenzione. Però, nello stesso momento, strappano quello stesso protagonista dal conforto dell’autoassoluzione, dall’idea che basti pentirsi perché tutto sparisca, e impongono invece la necessità di un percorso, di un’azione concreta che spinga a prendersi le proprie responsabilità, uscendo dal proprio ego per incontrare le sensibilità altrui.

Il valore terribile dell’esperienza delle vittime è raccontato senza filtri, ma contemporaneamente vengono messe in scena reazioni sorprendenti delle stesse vittime, lontane, per l’appunto, dallo stereotipo della “vittima”, ma tanto più vere quanto più rifiutano di incasellare i personaggi in macchiette preconfenzionate ad uso e consumo di chi pensa di sapere già tutto.
E c’è perfino spazio per le accuse campate per aria, le esagerazioni di chi non ha nessuno da accusare e allora se lo inventa giusto per non perdere il treno, come quelle mosse al sex-robot costruito da Todd che diventa capo dell’azienda che finanza
Philbert. Ma, di nuovo, senza che questo tolga una virgola alla forza delle molte accuse che invece fondate lo sono eccome (basta vedere cosa né è del robotico Henry appena dopo il licenziamento).

Bojack Horseman (3)

Il tema delle molestie e del clima tossico dell’industria hollywoodiana viene presentato in tutte le sue sfaccettature, nessuna delle quali edificanti, ma nemmeno per un momento ci si sente tirati fuori dalla vicenda di Bojack: anzi, proprio l’introduzione di tematiche così reali e attuali conferisce ulteriore linfa narrativa alla spirale autodistruttiva del protagonista, che forse era l’unico elemento che, di per sé, poteva far sentire il peso degli anni.
L’impressione è che Bojack Horseman sia riuscita, più ancora che nelle scorse stagioni, a restituire un ritratto straordinariamente umano dei suoi protagonisti, in cui merito e colpa non sono più categorie rigide con le quali incasellare per sempre una coscienza, bensì fasi di un percorso di vita che prevede alti e bassi, punizioni e redenzioni, disperazione e speranza.

Il che naturalmente, è ancora più straordinario se pensiamo che quasi nessuno dei protagonisti di Bojack Horseman è effettivamente un essere umano: gli elementi animal-antropomorfi dello continuano a essere terra di coltura per una comicità surreale e sorprendente, che non fa mai mancare il suo apporto creativo nemmeno negli episodi più drammatici, e che oltre al semplice ma efficacissimo intrattenimento, garantisce un alleggerimento che, piuttosto che banalizzare, rende qualunque discorso “serio” ancora più ficcante, perché gli toglie il carattere pomposamente universale che rischierebbe di spaventare lo spettatore: chi guarda Bojack Horseman viene cullato dalla follia colorata di pinguini avvocati, manager felini e attori con gli zoccoli, e in quell’ambiente protetto e giocoso si vede sparare in faccia una comprensione dolorosa e potentissima dell’animo umano.

Ragazzi, che spettacolo.

Bojack Horseman (5)



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