23 Agosto 2016 13 commenti

The Get Down, ecco come si fa una gran serie tv sul mondo della musica di Marco Villa

Dopo Stranger Things, The Get Down è la seconda bomba dell’estate 2016 di Netflix

Copertina, Pilot

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Esercizio facile: pensare alle ultime due serie tv a tema musicale andate in onda. La soluzione non è pagina 46, ma qui: Empire e Vinyl. La prima poco più di una soap, che di musicale ha giusto il contesto, ma per il resto potrebbe parlare di coltivazione di canna da zucchero in Bolivia e sarebbe più verosimile. La seconda un tentativo di ricostruire un intero mondo e un’intera epoca, naufragata sullo scoglio della propria ambizione. La prima una serie di enorme successo, la seconda cancellata dopo una stagione di ascolti disastrosi. In ogni caso, due serie che non sono riuscite a valorizzare l’argomento che raccontavano, che non sono riuscite a trovare tono e forza narrativa adeguate. Un punto non da poco, che viene portato a casa con imbarazzante facilità da The Get Down.

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The Get Down è la nuova serie di Netflix, diffusa il 12 agosto. Sei puntate che portano la firma di Baz Luhrmann e Stephen Adly Guirgis alla voce creatori. Se Luhrmann non ha bisogno di presentazioni, è il caso di dire che Guirgis è un autore di opere teatrali di Broadway e Off Broadway. La storia è quella della nascita dell’hip hop, nel Bronx della fine degli anni ‘70. C’è il mezzo criminale che vuole fare il dj, il bravo ragazzo che ha un talento mostruoso per le rime e il freestyle, la ragazza figlia del prete che vuole diventare una star della disco. E poi il boss dei sudamericani, gang rivali e writer. The Get Down, insomma, vuole raccontare un momento cruciale come quello della nascita non solo di un genere musicale, ma di tutte le quattro discipline (rap, turntablism, breakdance e street art) che sono andate poi a formare la cultura hip hop.

Una cultura nata nei quartieri più poveri e degradati e diventata nell’arco di qualche decennio un caposaldo del mainstream e dell’immaginario collettivo globale. Il tutto senza voler mai essere una serie tv per iniziati: chiunque può seguire The Get Down senza sentirsi tagliato fuori, perché la serie tv è innanzitutto la storia di un riscatto personale e generazionale, è l’eterno racconto dell’underdog che deve risalire la china perché è la sua natura e non può farne a meno. Può solo scegliere se farlo secondo le regole o da fuorilegge e in questo caso la musica è lo strumento per farcela senza diventare criminali.

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Questo in senso lato, perché The Get Down non è mai un vero e proprio drama, come questa descrizione potrebbe lasciar intendere. Il motivo di fondo è il nome di Baz Luhrmann e la sua storia personale, che si può riassumere in una sola parola: musical. The Get Down non è un musical in senso stretto, non vedrete mai gente che balla e canta mentre sta ordinando delle uova strapazzate, ma dal musical prende la leggerezza. Anche i momenti di maggiore tensione sono smorzati da un tono che non è mai drammatico, ma sempre un filo sopra le righe. È difficile da spiegare in altri termini, se non dicendo che quello di The Get Down è -appunto- un tono da musical, che viene settato nel primo episodio da una regia PAZZESCA di Luhrmann. Non sto esagerando: il primo mega-episodio di novanta minuti è un saggio di bravura del regista di Moulin Rouge, capace di dare un nuovo senso al termine “corale”.

Non solo Luhrmann riesce a far comprendere allo spettatore che tutte le trame che andrà a vedere sono intersecate, incrociate e sovrapposte tra loro, ma riesce anche a rendere visivamente come tutto sia concentrato nell’arco di poche centinaia di metri quadrati, creando un’unità spazio-temporale che ricorda tantissimo quella che viene a crearsi sul palcoscenico di un teatro. La potenza del primo episodio è tale da riuscire a tenere alta la tensione anche negli episodi successivi, che pagano un po’ in termini narrativi e registici. In tutti, in compenso, resta fortissimo l’impatto visivo che rende il Bronx una sorta di Beirut in anticipo di qualche anno: una città di macerie, che sembra uscita da bombardamenti a tappeto e che viene mostrata senza nessuna volontà di verosimiglianza, tornando così alle convenzioni teatrali.

In una serie di questo tipo, fondamentale è anche il cast e qui si viaggia davvero alti, con note di merito per Justice Smith (Ezekiel) e Jaden Smith (Dizzee), senza dimenticare Jimmy Smits, nell’ennesima sfaccettatura di personaggio latino della sua carriera. Lanciata in pompa magna e presentata come uno degli eventi dell’anno, The Get Down non delude per nulla le attese: dopo Stranger Things, è sempre di Netflix la seconda serie top dell’estate.



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